Mafia: la trattativa accelerò la morte di Borsellino - QdS

Mafia: la trattativa accelerò la morte di Borsellino

Mafia: la trattativa accelerò la morte di Borsellino

venerdì 20 Luglio 2018

Proprio nel ventiseiesimo anniversario della strage di via D'Amelio tra le cinquemila pagine della motivazione della sentenza sulla trattativa Stato-mafia si legge la sconcertante valutazione dei giudici della Corte d'assise di Palermo. Il ruolo di Dell'Utri e quello di Berlusconi. Corretta l'azione del Quirinale

L’invito al dialogo che i carabinieri fecero arrivare al boss Totò Riina dopo la strage di Capaci sarebbe l’elemento di novità che indusse Cosa nostra ad accelerare i tempi dell’eliminazione di Paolo Borsellino.
 
Proprio ieri, nel ventiseiesimo anniversario della strage di via D’Amelio i giudici della Corte d’assise di Palermo hanno depositato il dispositivo della sentenza sulla trattativa Stato-mafia emessa il 20 aprile scorso e tra le pagine del provvedimento  è stato possibile leggere la sconcertante valutazione.
 
Le motivazioni sono contenute in oltre cinquemila pagine e sono state depositate in tempi record: novanta giorni esatti dal verdetto. Una circostanza che, soprattutto in processi così complessi, accade molto raramente.
 
ESPONENTI INFEDELI DELLE ISTITUZIONI

"Ove non si volesse pervenire – scrivono i giudici – alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla ‘trattativa’, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità".
 
Un elemento che, scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza, "può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo".
 
Per il patto stretto tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra negli anni delle stragi sono stati condannati a vario titolo a pene pesantissime l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri, gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, boss e Massimo Ciancimino. Assolto l’ex ministro Nicola Mancino.

SUBRANNI, MORI E DE DONNO
 
"Subranni, Mori e De Donno – si legge nella sentenza – qualunque fossero le ragioni che li animarono, hanno di fatto consapevolmente reso attuale il proposito criminoso di Riina, da un lato aprendo il canale di comunicazione tramite Vito Ciancimino, e dall’altro esortando i vertici mafiosi a formulare le condizioni per la cessazione delle stragi e dunque a formulare la minaccia e il ricatto mafioso".  
 
Secondo i giudici i vertici del Ros, attraverso Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, attivarono il dialogo tra i corleonesi di Riina e Provenzano e pezzi dello Stato.

IL RUOLO DI DELL’UTRI
 
"Con l’apertura – si legge ancora nel provvedimento – alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992".
 
Secondo i giudici che hanno condannato l’ex senatore azzurro a 12 anni di carcere per minaccia a Corpo politico dello Stato, la disponibilità dell’imputato a porsi come intermediario tra i clan e Berlusconi pose inoltre "le premesse della rinnovazione della minaccia al governo quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato appunto presieduto dallo stesso Berlusconi".
 
La corte, dunque, ha accolto la tesi della procura secondo la quale Dell’Utri sarebbe stato la "cinghia di trasmissione" della minaccia di Cosa nostra all’ex premier. I giudici, poi, specificano che perché sussista il reato di minaccia a Corpo politico dello Stato non è necessario che la minaccia abbia effetti concreti, "ma è sufficiente che sia stata percepita dal soggetto passivo".
 
Cioè non è necessario che gli interventi legislativi del Governo Berlusconi o in sede parlamentare di Forza Italia "siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di auotodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa".

IL RUOLO DI SILVIO BERLUSCONI
 
"Se pure non vi è prova diretta – si legge nel provvedimento – dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano".
 
L’ex senatore, secondo i giudici, ha svolto con continuità almeno fino al 1994 il ruolo di intermediario tra interessi di Cosa nostra e quelli di Berlusconi e ciò sarebbe dimostrato dall’esborso di ingenti somme di denaro da parte delle società di Berlusconi poi versate o fatte arrivare a Cosa nostra.
 
"Tali pagamenti sono proseguiti almeno fino a dicembre del 1994 – scrivono i giudici – quando a Di Natale (mafioso ndr) fu fatto annotare il pagamento di 250 milioni nel libro mastro che questi gestiva".
 
"Si ha la conferma – prosegue la sentenza – che sino alla predetta data Dell’Utri, che faceva da intermediario di cosa nostra per i pagamenti, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti coi mafiosi ottenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versarle a cosa nostra".
 
La corte conclude che "vi è la prova che Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche al riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale nel quale incontrava Mangano (mafioso che lavorò come stalliere per Berlusconi ndr) per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo".
 
 
Ne sarebbero prova le dichiarazioni del pentito Cucuzza il quale affermava che Dell’Utri informò Mangano di una modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia.
 
"Ciò dimostra – prosegue la corte – che Dell’Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l’insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi, da premier, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell’Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori".

L’IPOTESI DI NOMINA A PROCURATORE ANTIMAFIA
 
La corte "smonta" poi le tesi dei legali degli imputati che attribuivano l’accelerazione dei tempi della strage all’indagine mafia-appalti che il magistrato stava effettuando e anche alla possibilità di una sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia.

IL MINISTRO MANCINO NON MENTI’
 
Nella sentenza è scritto che non c’è alcuna prova che l’avvicendamento tra Scotti e Mancino alla guida del Viminale sarebbe stata un pezzo della trattativa attraverso la scelta di politici più "morbidi" nei confronti delle cosche.
 
Mancino ha sempre negato che dietro la sua ascesa al Viminale ci fosse questa motivazione, secondo i pm mentendo.
 
Ma per la Corte essendo falsa la premessa, e che cioè la sostituzione di Scotti fosse dipesa dall’intenzione di attenuare il contrasto alle cosche, cade anche l’accusa di falsa testimonianza a Mancino.

CORRETTA L’AZIONE DEL QUIRINALE
 
"La sollecitazione di Mancino è rimasta priva di concreto sbocco – si legge ancora nel provvedimento –  poiché la Presidenza della Repubblica e la Procura generale della Cassazione, anche e soprattutto per chiara e ferma presa di posizione dell’allora capo della Dna Grasso, sono stati attenti a non travalicare i limiti delle proprie competenze".
 
Il riferimento è alle pressioni fatte da Mancino, imputato nel processo per falsa testimonianza, sia sulla procura generale della Cassazione che sul Colle.
 
Per la corte, Mancino non chiedeva tanto un coordinamento investigativo tra le procure che a vario titolo indagavano sulla trattativa, ma una valutazione unica da parte delle varie autorità giudiziarie.
 
Le pressioni di Mancino vengono definite dalla corte "inammissibili".
 
I vari soggetti contattati dall’ex ministro, che vista la caratura del personaggio non poterono ignorare le sue "doglianze",  "hanno – si legge nel provvedimento  – spostato il tema  verso l’unico profilo che avrebbe potuto avere un approfondimento ordinamentale, quello del coordinamento investigativo assegnato alla Dna e del connesso potere di sorveglianza attribuito al procuratore generale della Cassazione".

LA POSIZIONE DI CALOGERO MANNINO
 
Nella sentenza si parla anche della posizione dell’ex ministro Calogero Mannino, il quale "consapevole della vendetta che Cosa nostra voleva attuare nei suoi confronti per non essere egli riuscito a garantire l’esito del maxiprocesso auspicato dai mafiosi, si era rivolto non a chi poteva rafforzare le misure per la sua sicurezza ma a ufficiali dell’Arma amici".
 
La Corte d’assise conclude che le preoccupazioni dell’ex ministro "che temeva di essere ucciso, non sono estranee alla maturazione degli eventi definiti come trattativa Stato-mafia".
 
Per i giudici, dunque, la richiesta di aiuto che l’ex ministro, processato separatamente e assolto dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato, fece ai carabinieri del Ros, è stata uno degli input del dialogo intavolato tra pezzi dello Stato e mafiosi.

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