L’indagine sulle condotte è stata effettuata dall’Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispel) . Lo studio Consulcesi & Partners: “Alla prova dei fatti spesso la domanda del danneggiato viene rigettata”
ROMA – Mobbing, stalking, straining: il glossario della violenza psicologica sul luogo di lavoro si arricchisce di termini internazionali che raccontano, però, una realtà anche italiana fatta di vessazioni, umiliazioni e persecuzioni vissuta da oltre un milione e mezzo di lavoratori (dati Ispesl – Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro).
Tuttavia, il percorso giudiziario per il riconoscimento della condotta mobbizzante contro il lavoratore è complesso per il rigore dei presupposti richiesti.
“Alla prova dei fatti – sottolinea il network legale Consulcesi & Partners – spesso la domanda giudiziale del lavoratore viene rigettata, soprattutto per la difficoltà nel dimostrare il collegamento funzionale fra i singoli episodi vessatori che devono ripetersi in uno stretto arco temporale ed essere manifestazione dello stesso intento persecutorio”.
Per non lasciare impuniti quei comportamenti che, pur non rientrando appieno nella categoria del mobbing, mostrano comunque evidenti profili illeciti meritevoli di tutela in favore del lavoratore danneggiato, la giurisprudenza ha individuato il cosiddetto “straining”.
“Si tratta, in sostanza – spiega Consulcesi & Partners – di una forma più lieve del mobbing, che si realizza in condotte vessatorie imputabili a superiori, colleghi e datori di lavoro, che seppur caratterizzate dall’assenza di continuità, provocano nel lavoratore un danno permanente, con conseguente riflesso sulla sua situazione psico-fisica e morale”.
In pratica, affinché possa configurarsi lo straining, è sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti (ovviamente negativi) siano duraturi nel tempo. Ad esempio, in alcune sentenze si è configurato il danno da straining nei casi di demansionamento, di trasferimento in condizioni disagiate, di persistenti atteggiamenti di superiorità, fino a sanzionare atti di disprezzo o di scherno. Di recente – ricorda Consulcesi & Partners – la Cassazione ha riaffermato il principio per cui, nel caso in cui un lavoratore richieda il risarcimento di danni causalmente correlati ad una pluralità di condotte vessatorie imputabili al datore oppure ai colleghi di lavoro, il giudice deve comunque valutarne la rilevanza, anche se i fatti non solo legati da un comune intento persecutorio, giungendo ad una declaratoria di responsabilità del datore di lavoro, ai sensi dell`art. 2087 c.c., per quei danni (alla salute, all`immagine, alla vita di relazione o quant`altro) causalmente scaturiti dai singoli comportamenti lesivi (Cass. Civ. Lav. ord. 16256/2018).
Per quanto riguarda i danni, secondo Consulcesi & Partners: “Possono variare dalle conseguenze di natura psico-fisica, ad esempio una patologia insorta a causa della vessazione subita, a quelle di natura puramente morale, ma non è preclusa la possibilità di ottenere il ristoro del danno patrimoniale, sempre che sia dimostrata la riconducibilità causale all`evento lesivo occorso al dipendente”.
Ma quali sono le prove di cui ha bisogno il dipendente vittima di straining? Le diffide inviate all`amministrazione, con cui si sono segnalate le condotte improprie tenute dal datore o dai colleghi oppure situazioni idonee a rendere insicuro l`ambiente lavorativo; gli ordini di servizio incongrui ricevuti o le mail con carattere offensivo recapitate e qualsiasi altro riscontro documentale che possa descrivere la condotta stressogena; eventuali testimonianze rese da altri colleghi o da soggetti terzi che dovessero aver assistito a situazioni del genere e siano in grado di riferirle ad un magistrato.
Per quanto concerne la documentazione medica, infine, di assoluto rilievo sono le certificazioni sanitarie da cui evincere l`insorgere dei disturbi, oltre ai referti degli esami clinici effettuati, nonché la relativa perizia medica, redatta da uno specialista (psichiatra, psicologo od altro), con indicazione dell`incidenza della patologia sulla capacità psico-fisica del lavoratore (il cosiddetto “danno biologico”).