Decreto dignità e lotta al precariato, poche luci e molte ombre - QdS

Decreto dignità e lotta al precariato, poche luci e molte ombre

Decreto dignità e lotta al precariato, poche luci e molte ombre

venerdì 14 Settembre 2018

Sgravi contributivi per l’occupazione giovanile ma per i contratti a tempo aumenta il costo del lavoro. Superati i dodici mesi, per le aziende scatta l’obbligo della “causalità”

ROMA – ‘Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte’, è la versione corretta, un grido di speranza che sorge spontaneo, in un’era in cui la tutela reale del lavoro viene messa a dura prova.
Il ‘decreto dignità’ n. 87 del 12 luglio 2018, convertito in legge n. 96 del 9 agosto 2018, cerca di esperire il tentativo di contrastare il precariato e la delocalizzazione delle imprese, a salvaguardia dei livelli occupazionali.
 
 
L’art. 1 mira a modificare alcuni punti disciplinati dal D. Lgs. 81/2015, sul contratto di lavoro a tempo determinato; apporta solo alcune modifiche, lasciando invariato il resto. Nello specifico, il termine di durata complessiva è ridotto da trentasei mesi a ventiquattro mesi e viene ripristinata la causalità per i contratti di lavoro superiori a dodici mesi. Causalità che si mostra meno concessiva rispetto alla vecchia normativa, al contratto di lavoro può essere apposto un termine superiore a dodici mesi solo in presenza di una delle condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero per esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.
 
L’opposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto. Le proroghe passano da cinque a quattro, con vincolo di opposizione del termine nel caso in cui il termine complessivo superi i dodici mesi. Il contratto può essere rinnovato solo in presenza di specifiche esigenze sopra riportate. Mentre possono essere rinnovati o prorogati liberamente i contratti per attività stagionali. Vengono altresì, modificati i termini previsti entro il quale è possibile impugnare il contratto di lavoro, estendendoli da centoventi giorni a centottanta giorni.
 
Con la conversione in legge del decreto dignità viene introdotto l’art. 1 bis sull’esonero contributivo a favore dell’occupazione giovanile di lavoratori che non hanno compiuto il trentacinquesimo anno di età. Per un periodo massimo di 36 mesi, è riconosciuto un esonero del 50 per cento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, ad esclusione dei premi e contributi dovuti all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, e nel limite massimo di 3.000 euro su base annua, riparametrato e applicato su base mensile.
 
A seguire, l’art. 3 stabilisce un aumento del contributo addizionale previsto dall’art. 2 comma 28 della Legge 28 giugno 2012 n. 92, di 0,50 punti percentuali in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche nel caso di contratti in somministrazione.

Ponendo l’attenzione su quest’ultima modifica, sorge spontanea una breve riflessione sul costo del lavoro. I contratti di lavoro a tempo determinato ad ogni rinnovo contribuiranno ad appesantire il costo del lavoro, il che graverà sempre di più come una spada di Damocle sul datore di lavoro, appurato che, il costo del lavoro rappresenta la voce che maggiormente incide sui bilanci delle imprese. Inoltre, il datore di lavoro dovrà fare i conti anche con i contratti di somministrazione a tempo determinato che non potranno eccedere complessivamente il 30 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso lo stesso utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipulazione dei predetti contratti.
 
Passando poi, alla lettura degli artt. 5 e 6, vengono disciplinati i limiti alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali delle imprese beneficiarie di aiuti statali. Quest’ultime saranno nel mirino per i cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento effettuato, a verifica del mantenimento del livello occupazionale degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio. Necessariamente, le imprese beneficiarie dovranno mantenere i livelli occupazionali almeno per i cinque anni dalla ricezione dell’incentivo pena la restituzione del beneficio concesso e l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.
 
Il ‘decreto dignità’, con le sue novità e modifiche, rappresenta l’ennesima manovra di adottare delle misure di tutela e sostegno dell’occupazione di lungo periodo e di rafforzamento della competitività delle nostre imprese.
 
Da una parte, disincentivando l’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato, cerca di rendere più appetibile il contratto di lavoro a tempo indeterminato, quest’ultimo utilizzato spesso in modo improprio, con il risultato di creare gestioni del personale barcollanti tra la necessità di ridurre il carico contributivo dell’impresa e l’esigenza di avere a disposizione personale dipendente con idonee competenze, piuttosto che semplici portatori sani di incentivi.
 
Dall’altra, di far rinascere nelle imprese italiane il senso di appartenenza alla propria nazione, contrastando in modo incisivo forme di delocalizzazioni delle attività che determinano gravi conseguenze per il Paese, sia in termini di perdita di posti di lavoro, che di indebolimento della competitività strutturale delle imprese e della produzione di ricchezza interna.
Dunque, sarebbe meglio dire, ‘Stringiamoci a coorte o siam pronti alla morte?’

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