Sicilia, senza strategie inutile pompare liquidità - QdS

Sicilia, senza strategie inutile pompare liquidità

Paola Giordano

Sicilia, senza strategie inutile pompare liquidità

sabato 09 Marzo 2019

“Caro Presidente Musumeci ti scrivo...”, l’economista Sebastiano Fadda al QdS: “Taglio enti inutili, semplificazione procedure, partire da innovazioni a basso costo economico e ad alto costo politico”. Autonomia, dopo decenni di gestione dissennata non ci sono più scuse per la nostra classe politica

PALERMO – Nell’Isola è boom di spesa… “cattiva”. La manovra economica, varata dall’Ars e pubblicata in Gurs lo scorso 26 febbraio, prevede uno stanziamento di oltre 15 miliardi di euro per le spese correnti, quelle spese cioè che occorrono per la gestione ordinaria dell’apparato regionale e che pertanto sono certe e allo stesso tempo improduttive: secondo infatti le regole basilari di macroeconomia, “uno muove uno”.
 
Si tratta quindi di una cifra enorme: quasi il 90 per cento delle spese totali, che si attestano intorno ai 17 miliardi. Ciò vuol dire, in sostanza, che quasi la totalità della spesa della Regione siciliana è destinata a capitoli di bilancio “cattivi”, che non producono ricchezza, anzi: sono miliardi di euro che la Regione sa per certo di dover spendere, senza se e senza ma.
 
Per contro, alle spese in conto capitale, quelle cioè destinate agli investimenti, sono stati destinati appena 160 milioni. Neanche l’un per cento, insomma. Eppure questo capitolo di spesa è quello che porterebbe un ritorno economico di non poco conto perché, in questo caso, “uno muove cinque/dieci”, cioè investendo un euro si mettono in moto cinque-dieci euro.
 
Non è finita qui perché guardando all’altra grande componente che compone un bilancio, quella delle “entrate”, si evince che la quota di entrate correnti di natura tributaria, contributiva e perequativa si aggira sui 12,3 miliardi di euro: una somma su cui è possibile contare con assoluta certezza. Ciò vuol dire, in soldoni, che se la Regione non riuscirà ad incassare quella cifra, per sopperire alle spese correnti dovrà attingere ai 160 milioni previsti per gli investimenti. Milioni sui quali quindi non è possibile mettere la mano sul fuoco.
 
Come se non bastasse, il report redatto dalla Cna di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto sulla base degli ultimi dati disponibili, relativi all’anno 2016, ha rilevato che la quota destinata alla spesa pubblica assorbe più della metà del nostro prodotto interno lordo: il 54,7 per cento per la precisione, contro il 29,9 per cento della Lombardia e contro una media nazionale (39,1 per cento) che si attesta ben sotto alle cifre siciliane.
 
Un divario, quello esistente tra l’Isola e i cugini lombardi che, stando alle percentuali, appare incolmabile ma che tradotto in spesa pro capite si assottiglia: le amministrazioni centrali e locali della Lombardia spendono circa 10.500 euro a cranio, quasi tanto quanto ne sborsa la Sicilia (10.000 euro), che di abitanti ne conta la metà. Con risultati diversi, ça va sans dire, perché differente è il background di servizi che le due regioni riescono ad offrire ai propri cittadini. L’equazione “spesa pro capire Sicilia uguale a spesa pro capite Lombardia” la dice quindi lunga su come vengono spese le risorse disponibili e su quanto incidano i diversi i contesti di partenza.
 
Senza, in sostanza, una strategia di razionalizzazione della cosiddetta spesa “improduttiva”, quella cioè che riguarda tutte le voci di bilancio necessarie all’amministrazione quotidiana dell’ente, è inutile, come sostiene l’economista Fadda, intervistato in esclusiva dal QdS (leggi sotto), “pompare” risorse finanziarie perché esse finiscono per essere sprecate. Eppure la Sicilia avrebbe un asso nella manica per risollevare le sue sorti: lo Statuto speciale. Il condizionale è d’obbligo perché i governi regionali che nei decenni si sono succeduti ne hanno fatto scempio, “invocandolo” solo per difendere i propri privilegi.
 
A breve la musica potrebbe cambiare: Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – le prime due a seguito dei referendum consultivi del 2017, la terza accodandosi senza aver disposto una consultazione popolare – hanno espressamente chiesto al governo che sia loro concessa un’autonomia regionale differenziata, appellandosi all’art. 116 della Costituzione che prevede la possibilità di attribuire alle regioni ordinarie che ne facciano richiesta “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Si tratterebbe, in sostanza, di poter autogestire “le materie di potestà legislativa concorrente” tra le quali – come enunciato dall’art. 117, terzo comma, del testo costituzionale – vi è il “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
 
Perplessità riguardo il cosiddetto “regionalismo a geometrie variabili” sono state espresse dal Presidente dello Svimex, Adriano Giannola, che ha ribadito che “è lo Stato che deve assumersi la responsabilità di fare le perequazione tra aree fori ed aree deboli” e ha proposto, in alternativa, un nuovo Patto tra Centro-Nord e Sud: “Bisogna puntare tutti insieme a faredel Sud il baricentro di un modello di sviluppo attorno al Mediterraneo”.
 
Quel che è certo è che le tre Regioni capofila non hanno nessuna intenzione di arretrare. Non a torto, perché negli anni hanno mostrato, numeri alla mano, di saper produrre ricchezza e di essere in grado di gestire le risorse. E adesso vogliono raccogliere i frutti della propria capacità amministrativa, ponendo indirettamente le regioni italiane “povere” – Sicilia compresa, ahinoi – quindi di fronte ad un ultimatum: cambiare subito rotta nella gestione della cosa pubblica o il gap esistente tra le due Italie raggiungerà, con il regionalismo differenziato, livelli incolmabili. È dunque finito il tempo della malapolitica: serve ora più che mai rimboccarsi le maniche.
 



L’intervista del Quotidiano di Sicilia a Sebastiano Fadda, economista e docente presso l’Università di Roma
 
Prof. Fadda, immaginando di avere davanti a sé il Presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci, quale “ricetta” suggerirebbe per sbloccare la grave situazione di sottosviluppo della Sicilia?
“Provo a indicare in estrema sintesi quattro punti di un percorso che a mio parere sarebbe corretto seguire. Punto primo: individuare nella Regione le ‘filiere produttive’ principali e i suoi nodi territoriali. è necessario utilizzare il concetto di filiera, e non di settori, perché va considerata l’intera catena di valore in cui confluiscono diversi settori e in cui si compone un processo che va dall’inizio della produzione al prodotto finale e alla sua distribuzione. Si pensi, per fare un semplice esempio alla filiera di un prodotto agricolo: in essa confluiscono il settore della chimica per i fertilizzanti e i medicamenti, il settore idraulico per l’irrigazione, il settore meccanico per la lavorazione della terra, il settore dei trasporti e della logistica per la distribuzione, il settore del marketing per il posizionamento strategico del prodotto… e così via). In questa ottica vanno considerate sia le filiere di frontiera (es. biotecnologie, chimica farmaceutica, chimica dei materiali, farmaceutica, tecnologie spaziali, ecc.), sia le filiere tradizionali (es. tac, meccanica, ma anche Hi-Fi, giocattolo, turismo, agroindustria, alimentare, ecc.) da riempire di nuovi contenuti di conoscenza, sia le filiere legate alle utilities e alla logistica (energia, trasporti, gas, ecc.). Individuare quindi l’ossatura produttiva di partenza (già attiva o allo stato embrionale) è il primo passo per elaborare una strategia di sviluppo.
 
Punto secondo: intervenire nei nodi territoriali, i ‘territori’ dove si addensano le fasi di tali filiere, con misure di rafforzamento e sostegno progettate organicamente in un’ottica di sistema, nel duplice senso: a) di essere orientate verso tutti gli attori coinvolti in tali processi: diversi settori, piccole e grandi imprese e lavoro autonomo, soggetti pubblici; b) di essere concepite e pianificate come un sistema organico di interventi reciprocamente complementari (politiche del lavoro e della formazione, politiche per l’innovazione e per la crescita della produttività, politiche commerciali e di marketing, politiche del credito, e così via), concorrenti e convergenti verso il raggiungimento di uno stesso obiettivo. Abolire quindi la frammentazione e la compartimentalizzazione delle politiche raggiungendo una appropriata integrazione verticale tra i diversi livelli di governo territoriale e una altrettanto appropriata integrazione orizzontale tra i diversi soggetti protagonisti della vita economica.
 
Punto terzo: intervenire per il miglioramento radicale del tessuto urbano e dell’armatura del territorio, agendo sia sulle infrastrutture fisiche (decoro urbano, trasporti e comunicazioni…) sia sulle infrastrutture ‘civili’ (scuola, sanità, sicurezza, attività culturali, qualità della vita…). L’importanza di questi aspetti che condizionano la qualità della vita è troppo spesso sottovalutata, mentre è di estrema rilievo sia per le implicazioni sui livelli dell’occupazione e del reddito, sia per l’impatto sugli atteggiamenti comportamentali e la coesione sociale.
 
Punto quarto: incorporare in tutti questi interventi adeguate misure per il cambiamento istituzionale. Ciò è necessario per eliminare situazioni di blocco che paralizzano e distorcono i processi di sviluppo economico. Tali misure devono riguardare da un lato la Pubblica Amministrazione (costruzione di capacità tecniche – capacity building – e di autonomia dal potere politico) e dall’altro le ‘istituzioni economiche’ intese in senso lato come quell’ insieme di modelli di comportamento e di pratiche operative che strutturano le relazioni tra gli agenti (e quindi occorre adottare energiche e organiche misure per: eliminare i fenomeni di rent seeking, eliminare la corruzione, eliminare il clientelismo, rafforzare la valorizzazione del merito, costruire reti di fiducia, ridurre le asimmetrie informative, chiarire e garantire i diritti di proprietà, risolvere i ‘problemi di agenzia’ a tutti i livelli, ridurre i costi di transazione, ridurre la cultura della rendita, rafforzare la concorrenza, sostenere la propensione al rischio imprenditoriale, garantire la legalità, e così via). Il protrarsi dell’assenza di misure finalizzate a questi obiettivi ‘nuoce gravemente’ non solo allo svolgimento di una vita sociale più civile e più giusta, ma anche allo sviluppo economico”.
 
“Vorrei aggiungere un quinto punto. è una domanda: chi e come farà tutto questo? Questo è il problema della Governance economica, da riqualificare profondamente in una Regione come la Sicilia. L’autonomia della Regione dovrebbe consentire di ridisegnare l’architettura e il funzionamento degli organi di governo politico ed economico nella maniera più efficiente e più funzionale al conseguimento degli obiettivi di sviluppo economico e sociale. Ciò richiede sicuramente uno snellimento dell’apparato burocratico, il taglio di diversi enti inutili, la semplificazione delle procedure. Queste sono innovazioni a bassissimo costo economico (anzi sono a contropartita positiva) ma ad altissimo costo politico.
Considerando che ‘non sono stati certo i proprietari delle diligenze a favorire lo sviluppo delle ferrovie’ si può ipotizzare che non sarà lo stesso apparato politico e burocratico a favorire il suo ridimensionamento e la sua razionalizzazione. Ciò può avvenire solo dietro una pressante spinta della società”.

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