L'indagine, che ha portato all'emissione di 32 ordini di custodia, ha al centro le figure del boss Di Giovanni e del reggente del mandamento di Porta nuova. La droga il primo business, grande richiesta di stupefacenti dalla Palermo bene. I capi dirigevano le attività economiche dal carcere. IN AGGIORNAMENTO
I Carabinieri del Comando Provinciale di Palermo hanno eseguito nell’operazione denominata Atena 32 ordini di custodia cautelare in carcere nei confronti di persone accusate a vario titolo di associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsioni aggravate dal metodo mafioso, favoreggiamento aggravato, trasferimento fraudolento di valori, sleale concorrenza aggravata dalle finalità mafiose, spaccio di sostanze stupefacenti e detenzione illegale di armi.
Tutti i nomi
degli arrestati
Le persone arrestate e finite in carcere nell’operazione sono: Francesco Arcuri, 38 anni; Paolo Calcagno 52; Giuseppe Corona, 50; Tommaso Di Giovanni 52; Gregorio Di Giovanni, 56; Michele Madonia 48; Francesco Pitarresi, 29; Gaspare Rizzuto, 36; Filippo Maniscalco, 25 anni; Settimo Spitaliere, 36; Costantino Trapani, 50; Giulio Affranchi, 69; Salvatore De Luca, 50.
Ai domiciliari sono finiti Pietro Burgio, 33 anni; Cristian Caracausi, 23; Gioacchino Cirivello, 49; Andrea Damiano, 41; Salvatore De Santis, 25; Alessandro Angelo Di Blasi, 31; Benedetto Graviano, 27; Alessio Haou, 29; Antonino Pisciotta, 42; Antonio Sorrentino, 51; Rosalia Spitaliere, 41; Salvatore Sucameli, 32; Vincenzo Toscano, 31; Sebastiano Vinciguerra, 58; Salvatore D’Oca, 35; Giovanni Maniscalco, 48; Khemais Lausgi, 30; Gandolfo Emanuel Milazzo, 25; Fabrizio Nuccio, 27.
La ricostituzione
della Cupola
mafiosa
L’inchiesta, coordinata dalla Dda palermitana e dal procuratore Francesco Lo Voi, è una prosecuzione di un’attività investigativa che nei mesi scorsi ha portato a colpire il mandamento mafioso di Porta Nuova e a scoprire la ricostituzione della Cupola di Cosa nostra, tornata a riunirsi dopo vent’anni, il 28 maggio scorso, ad Altarello di Baida, nel Palermitano.
Il blitz, allora, portò in carcere il boss Gregorio Di Giovanni, indicato dagli inquirenti come uno dei rappresentanti della nuova Cupola.
Le indagini successive hanno accertato che Di Giovanni, dopo la scarcerazione seguita a una condanna passata, aveva immediatamente affiancato il reggente del mandamento Paolo Calcagno, prendendone poi il posto alla guida della "famiglia" dopo l’arresto.
Da allora, secondo le indagini, era diventato lui il capo del clan e per un periodo suo vice era stato il fratello Tommaso, poi anche lui arrestato.
Il capomafia è stato affiancato nella gestione delle attività illecite da uomini di fiducia di diversi quartieri del centro della città.
L’inchiesta, oltre a ricostruire gli assetti mafiosi, ha svelato che Calcagno, dal carcere, dava ordini per il sostentamento della sua famiglia.
Nel corso dei colloqui in carcere forniva alla moglie e al cognato indicazioni sui soggetti cui rivolgersi per ricevere le somme di denaro che spettavano loro e i profitti degli investimenti economici realizzati in attività commerciali pienamente funzionali e attive.
Dall’inchiesta è emerso come sia ancora la droga il principale business di Cosa nostra a Palermo.
Il "mandamento" di Porta Nuova organizzava le piazze di spaccio di sostanze stupefacenti nel centro della città, dove la domanda di droga è in continua crescita.
Sono state registrate dai Carabinieri centinaia di richieste di acquisto per uso personale anche da parte di imprenditori e liberi professionisti della cosiddetta Palermo bene.
L’inchiesta ha individuato due diverse attività, una imprenditoriale e l’altra commerciale, ritenute riconducibili ai vertici di Cosa nostra, ma intestate a prestanome.
"Cosa nostra spa" diversifica dunque gli investimenti: i boss del mandamento di Porta Nuova avevano acquistato una società: la Pronto Bus Sicilia, che prelevava i turisti nel porto di Palermo e li portava a visitare i siti artistici e monumentali della città.
Le attività sono state sequestrate.
E’ stato inoltre contestato ad alcuni indagati il reato di illecita concorrenza aggravata dal metodo mafioso perché è emerso che i clan imponevano la fornitura di caffè a bar del loro territorio.
Infine, sono stati individuati presunti autori di cinque estorsioni nei confronti di imprenditori e commercianti costretti a pagare il pizzo.