Trend negativo in tutta Italia con un calo del 5%. I giovani siciliani preferiscono le Università del Nord. Le imprese scartano i “cervelli” e assumono con titoli inferiori alla laurea
PALERMO – La crisi investe anche il mondo delle università siciliane. Le famiglie di tutta Italia, e della Sicilia in particolare, non investono più sulla formazione, che non rende a livelli lavorativi come nel resto d’Europa.
Il trend degli ultimi anni delle iscrizioni alle facoltà universitarie non fa altro che confermare questo dato. Dai dati nazionali si evince un calo delle iscrizioni di quasi il 5 per cento. Il decremento delle iscrizioni riguarda in Sicilia soprattutto le facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, a causa dell’introduzione del numero chiuso per la facoltà di Scienze Biologiche.
Sostanzialmente stabile il numero di aspiranti per la facoltà di Medicina, per effetto del numero programmato a livello nazionale che penalizza le richieste di oltre 3 mila giovani. Cresce Architettura, mentre un drastico calo si registra per Scienze Motorie, dovuto all’introduzione del numero chiuso nell’unico corso triennale. Infine, le tre facoltà meno popolose: Scienze politiche, dove è stato introdotto il test di verifica delle conoscenze iniziali; Agraria e Farmacia.
Un dato ancora più significativo riguarda la “fuga” dei giovani siciliani verso Atenei delle regioni settentrionali della Penisola. Un esempio su tutte, l’Università di Modena e Reggio Emilia, che registrano un aumento di iscrizioni di giovani provenienti dalla Sicilia di circa il 15 per cento. In controtendenza l’Ateneo di Palermo, che dai dati elaborati dal centro universitario di Calcolo registra un aumento delle immatricolazioni.
“Questo dato – dice il rettore dell’Università di Palermo, Roberto Lagalla – conferma la fiducia nel nostro Ateneo e ci impone di rispondere con rinnovato impegno, in termini di servizi e di compartecipazione attiva, alla richiesta di formazione che arriva dai giovani siciliani e dalle loro famiglie. Il fatto poi che il dato cresca nonostante la riduzione dei corsi, nel prossimo anno ancora più drastica, dimostra che la parcellizzazione dell’offerta non è un automatico moltiplicatore di interesse e che un ventaglio didattico più razionale e attento ai bisogni del territorio può rappresentare una proposta più credibile e convincente”.
Il sempre maggiore disinteresse delle famiglie all’investimento sulla formazione dei giovani non è altro che un ulteriore dato che conferma l’impoverimento economico e culturale del Paese. In Italia la ricerca e l’eccellenza non trovano più spazio nel mondo del lavoro e la qualità non è premiante nemmeno nelle Università e nelle scuole.
Le imprese italiane, come dimostrano le ricerche di Excelsior Unioncamere, assumono al 90 per cento solo diplomati e personale con la licenza media o elementare, mentre gli investimenti sui cervelli sono sempre minori.
“Difficile dire se sia nato prima l’uovo o la gallina, se le responsabilità siano di un popolo con un basso livello d’istruzione o di una classe dirigente impreparata e irresponsabile – dice Giacomo Vaciago, ordinario di politica economica alla Cattolica – ma una cosa è certa. Se non si inverte il trend, il futuro sarà assai peggiore di un presente già nero”.
Titoli di studio. Gli Italiani occupano gli ultimi posti in Europa
ROMA – L’Italia, paese conosciuto in tutto il mondo per le sue bellezze culturali e letterarie, sta diventando sempre più analfabeta. Quasi un milione di persone, nel 2010, non sa prendere una penna in mano o distinguere una lettera da un’altra. Oltre 5 milioni di cittadini non hanno alcun titolo di studio, 13 milioni sono quelli che hanno soltanto la licenza elementare.
Tullio De Mauro, linguista, ha disegnato più volte i confini del disastro: “Il 25% degli studenti con la licenza media non sa né leggere né scrivere, né fare di conto”. Solo gli abitanti dello Stato del Nuevo Leon, in Messico, stanno messi peggio di noi. Secondo l’Eurostat, nella classifica dei titoli minimi di studio sui 27 membri della Ue, siamo quart’ultimi. Identiche posizioni per la classifica sui giovani che abbandonano prematuramente gli studi: nel 2008 un ragazzo su cinque si è “ritirato” senza terminare il ciclo di studi. Il panorama non migliora se si parla di consumi culturali, dove gli italiani investono il 6,9% del loro budget mensile (Eurostat 2006) e spendono pochissimo nell’acquisto di libri e nella lettura dei quotidiani. Soltanto l’Emilia Romagna si avvicina alla media europea.