L’esasperata lunghezza dei processi civili e penali rende ingiusta la Giustizia, perché chi chiede l’intervento della magistratura ha il diritto di avere una risposta in tempi europei.
Il dibattito sulla lunghezza dei processi, che durano oltre dieci anni, è ormai ammuffito sotto una coltre di polvere, ma l’istituzione preposta a trovare le soluzioni non riesce a cavare un ragno dal buco. Tutti quelli che intervengono poi, si occupano di segmenti e propongono soluzioni di piccole dimensioni, ma non hanno posto all’ordine del giorno la soluzione riformatrice complessiva che consenta di arrivare al punto e cioè tagliare la lunghezza dei processi a meno di tre anni.
Dopo di che bisognerebbe attaccare con determinazione l’enorme arretrato affidandolo a magistrati di vario genere per esaurirlo a stralcio. Per affrontare la questione globalmente, bisogna partire dalle procedure che vanno tagliate senza pietà in modo da ridurre drasticamente il percorso, dall’attivazione del processo fino alla sua sentenza.
La seconda questione riguarda la valutazione di merito sia dei magistrati che del personale amministrativo, avendo preventivamente determinato la quantità e la qualità dei servizi che l’apparato deve produrre attribuendo le figure professionali necessarie, in modo che esse abbiano un carico di lavoro preciso e determinato. Il merito e il demerito andrebbero premiati o sanzionati.
La terza e non meno importante questione riguarda l’organizzazione e l’informatizzazione di tutti gli uffici, con l’abolizione dell’odiosa carta che occupa spazi inutili e fa impiegare un tempo enorme per gestirla. Il costo dell’informatizzazione è relativamente modesto. Mettere in rete tutti i pc dei magistrati, dei cancellieri, degli avvocati significa che nelle aule dei tribunali si andrebbe solo per le udienze, le quali potrebbero essere effettuate in almeno otto ore al giorno.
Una quarta questione riguarda gli avvocati che in Italia sono un numero enorme. Basti pensare che il totale degli avvocati di Roma è uguale al totale degli avvocati della Francia.
È chiaro che quando un giovane, dopo un lungo corso di studi, approda all’albo professionale, in assenza di concorsi pubblici deve rivolgersi al mercato. Ma siccome il mercato non c’è, si inventa il lavoro che non c’è. Per cui la tendenza è quella di fare allungare con ogni mezzo i processi, secondo la regola che un processo più pende e più rende.
Immaginate se i processi fossero ridotti ad un terzo del tempo attuale che impiegano, è normale che due terzi degli avvocati non avrebbero più cosa fare. Anche loro si trasformerebbero in precari e bisognerebbe dargli una forma di sussistenza. Dunque, la questione ha risvolti sociali e forse anche questo pesa sulla mancanza di volontà di riformare la Giustizia nel suo complesso.
Non tutti sanno che esiste la cosiddetta legge Pinto (89/2001) la quale consente ad attore e convenuto di un processo, quando esso supera il triennio, di richiedere alla Corte d’Appello del distretto giudiziario, un risarcimento che è quantificato, grosso modo, tra 1.000 e 1.500 euro per anno di ritardo.
Le relative sentenze di risarcimento sono automatiche perché non c’è assolutamente nessuna opinione da esprimere e pertanto il giudice preposto deve solo fare un conteggio per liquidare la somma. Ma non tutti sanno che esiste questa forma di risarcimento.
Nell’inchiesta pubblicata dal Quotidiano di Sicilia di sabato 7 marzo 2009, è stato quantificato in 2 milioni di euro l’ammontare del risarcimento riconosciuto nel 2008 dai quattro distretti giudiziari della Sicilia. L’aspetto divertente della legge Pinto è che qualche volta è capitato che la sentenza di risarcimento sia arrivata dopo i tre anni.
Potrebbe verificarsi il caso che attore e convenuto facciano ricorso per il risarcimento del danno a seguito del ritardo della sentenza in base alla suddetta legge, cioè la Pinto della Pinto. Ci sarebbe da piangere, ma è meglio ridere.