Se un ente pubblico di qualunque livello, territoriale e non territoriale, non ha redatto un Piano aziendale non è in condizione di sapere quali e quante risorse umane e strumentali abbia bisogno per raggiungere i propri obiettivi, cioè i servizi da rendere a cittadini e imprese.
Com’è noto ai veri professionisti, il Piano aziendale si divide in quattro parti: programmazione, organizzazione, gestione e controllo. Ognuna di esse è essenziale per comprendere alla fine di ogni esercizio la percentuale di risultati sugli obiettivi prefissati.
Se la Regione, nei suoi sessantaquattro anni, avesse redatto il Piano aziendale, avrebbe fissato, di volta in volta come obiettivo primario da raggiungere, l’incremento del Pil su quello nazionale. Com’è noto, il Pil è il dato sintetico che misura la ricchezza prodotta da un territorio. I 57 governi regionali, di cui ben 54 prima della riforma elettorale, a cominciare dal primo presieduto da Giuseppe Alessi (1947) hanno governato alla sans façon, cioè a casaccio. E ancora oggi il governo Lombardo non ha fissato l’incremento del Pil nei cinque anni di legislatura per farlo elevare dal misero 5,6% in cui è relegato. Neanche il documento di programmazione economico-finanziaria (l’ultimo approvato è quello del 2009-2013, perché quello successivo non è stato votato dall’Ars) contiene tali obiettivi.
Se i Governi regionali avessero avuto il Piano aziendale, ne sarebbe scaturito il numero esatto di dirigenti e dipendenti occorrenti alla sua realizzazione. Non essendovi, risulta del tutto arbitrario il numero di 15.600 dipendenti fissato nella legge regionale 11/2010 (art. 51 della Finanziaria).
Non appena le singole branche amministrative ci forniranno l’elenco completo dei servizi prodotti (tipologia e quantità), saremo nelle condizioni di determinare il fabbisogno di risorse umane, branca per branca e nel suo complesso. Non vogliamo pensare che i dirigenti generali siano reticenti o che, per non farsi fare i conti in casa, non ci forniscano le informazioni necessarie al conteggio.
In questo quadro si pongono due questioni: una quantitativa e l’altra qualitativa. Quella quantitativa: un esubero stimato di 5.600 dipendenti e 1.704 dirigenti.
Che fare di questi esuberi? La risposta è semplice: metterli in cassa integrazione. Obiezione: la cassa integrazione per i dipendenti regionali non è prevista.
Ma è meglio non prenderci in giro. Se c’è un esubero di personale rispetto alle esigenze, chiamiamolo come vogliamo, ma il proprio status è quello di cassaintegrati con la conseguente riduzione dello stipendio. Eppoi, la cassa integrazione regionale esiste già: si tratta della Resais Spa, nella quale vi è qualche migliaio di inutili dipendenti pubblici. Nulla vieterebbe di mandarvi gli esuberi sopra indicati. Meglio lasciarli a casa che farli venire in Regione.
La seconda questione, quella qualitativa: riguarda l’aggancio dei salari alla produttività. Il Governo dovrebbe impartire disposizioni all’Aran per riformare i contratti, fissando una cospicua parte variabile e quindi collegata ai risultati. Se così sarà, ne vedremo delle belle.