Giustizia: responsabilità dei giudici e referendum - QdS

Giustizia: responsabilità dei giudici e referendum

Giustizia: responsabilità dei giudici e referendum

martedì 16 Novembre 2021


Riflessioni sui quesiti referendari: unici strumenti, oltre le elezioni, di protesta democratica del Popolo sovrano

Il referendum abrogativo è previsto dalla Costituzione (art. 75) come istituto di democrazia diretta; ma, ad evitare che una legge, votata dal Parlamento, organo ordinario per l’adozione delle leggi, potesse facilmente essere travolta da un esiguo numero di cittadini, fu stabilito per la sua validità un quorum, e cioè la partecipazione al voto della maggioranza dei cittadini elettori.

Per rubare il titolo di un famoso libro di Luciano De Crescenzo, il quorum si è rivelato nel tempo “Croce e Delizia” sia per i promotori di un referendum sia soprattutto per gli oppositori. Infatti, se i primi sono sotto la spada di Damocle del raggiungimento del quorum, condicio sine qua non per la validità della consultazione, gli oppositori si trovano nel dilemma se suggerire di partecipare o non alla consultazione. Infatti, partecipando alla consultazione agevolano i promotori per il raggiungimento del quorum; non partecipando, si rischia che – ove il numero dei votanti sia appena sufficiente (il 50 % degli elettori + 1), con una maggioranza di voti favorevoli, che, nella sostanza, rappresenta una minoranza di cittadini – la legge rischia di essere abrogata.

Soprattutto da parte dei promotori storici di referendum (i Radicali) si chiede, quindi, a gran voce l’abolizione del quorum (per il che occorre la modifica dell’articolo 75 della Costituzione), considerato che la sfiducia verso la Politica spinge da tempo parecchi cittadini a disertare le urne, laddove gli elettori favorevoli all’abrogazione di una legge sicuramente vanno a votare, per l’abolizione di una legge ritenuta iniqua.
In effetti può apparire opportuna l’abolizione di un quorum, anche per snidare i più riottosi ad esercitare il diritto di voto che è, e rimane, sia nella votazione referendaria, sia nelle amministrative, sia nelle elezioni politiche, l’unico strumento di protesta democratica del “Popolo sovrano”.
La legge che ne ha disciplinato l’applicazione è stata peraltro varata cinquanta anni fa, nel 1970 (Legge 352), di fatto per consentire al “Popolo sovrano” di esprimersi sulla legge che nello stesso anno aveva introdotto il divorzio nell’ordinamento giuridico italiano (ed il primo referendum confermò la scelta del legislatore).

Non tutte le leggi possono essere oggetto di referendum, essendone escluse quelle tributarie (quindi, per noi cittadini, niente possibilità di ridurci le imposte con un referendum) e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. E spetta alla Corte costituzionale di verificare a priori che il referendum proposto non riguardi alcuna delle materie sopra indicate, con una “sentenza” di ammissibilità o inammissibilità del referendum, dopo che l’Ufficio centrale costituito presso la Suprema Corte di cassazione abbia vagliato gli altri profili (raccolta di firme, rispetto dei termini ecc.).

Nel nostro caso è intervenuto solo il vaglio positivo da parte della Cassazione, ma si può affermare con ragionevole certezza che la Corte costituzionale si pronuncerà per l’ammissibilità dei referendum, dal momento che questi non riguardano le materie escluse.

I SEI REFERENDUM

Per i sei referendum, riguardanti tutti il pianeta “Giustizia”, in concomitanza con la raccolta delle firme, si sono mosse ben nove regioni (Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto), alcune di centrodestra, altre di centrosinistra, per cui trionfalisticamente i partiti hanno affermato che si è in presenza di una richiesta bipartisan. Ciò lascia intendere che la maggior parte dei partiti, oltre i Radicali, si impegneranno per una massiccia partecipazione al voto e per l’accoglimento dei referendum.

Non occorre, quindi, essere profeti né guardare in una sfera di cristallo per prevedere che sarà facilmente raggiunto il quorum richiesto per la validità del referendum.
Ma oggi, al di là delle affermazioni sicure dei promotori e di taluni mass media, non tutti i cittadini sanno in che cosa consistano in concreto questi referendum, né hanno precisa coscienza del loro effettivo impatto (positivo) sulla “Giustizia”; appare utile quindi un seppur sintetico approfondimento di ciascuno dei quesiti, che faccia riflettere tutti sull’espressione di un voto, al quale sarà comunque bene partecipare, in modo che l’esito del referendum corrisponda il più possibile alla volontà popolare.

REFERENDUM SULLA RESPONSABILITÀ DEL MAGISTRATO

Dei sei referendum quello trainante è certamente quello sulla “Responsabilità di Magistrati”, poiché tutti i mali della Giustizia vengono il più delle volte imputati a coloro che la Giustizia amministrano.
Ma cosa prevede la legge attuale (la 117 del 1988 sulla responsabilità dei magistrati, di recente modificata con legge 18 del 2015), emanata a seguito del referendum del 1987, sulla quale si intende incidere con l’odierno referendum?

Qui occorre fare un passo indietro. Il Codice di procedura civile, risalente al 1940, con le disposizioni contenute negli articoli 55, 56 e 74 limitava l’azione diretta contro i magistrati (Giudici e Pubblici ministeri) per i danni arrecati ai cittadini nell’esercizio delle loro funzioni, a comportamenti imputabili a dolo, frode o concussione; subordinava l’azione alla preventiva autorizzazione del Ministro di Grazia e Giustizia, organo politico-amministrativo (condizione di proponibilità). Spettava poi alla Corte di cassazione, una volta intervenuta l’autorizzazione, di indicare il magistrato competente per il giudizio.

Questa sorta di “tagliola” da taluni giuristi era ritenuta ingiustificata rispetto alla comune azione contro gli altri pubblici dipendenti, per il cui esercizio non è richiesta autorizzazione alcuna; ma fu soprattutto il “caso Tortora” – scoppiato nel 1983, con il noto giornalista e conduttore televisivo in pasto ai mass media, un arresto clamoroso con accuse infamanti di associazione camorristica e traffico di droga nel 1983 – a dare impulso alla questione. Nel processo di primo grado, imbastito di errori anche madornali, prove fasulle e falsi testimoni, tutti pregiudicati, il conduttore fu condannato, ma fortunatamente in appello si ebbe la piena assoluzione, confermata dalla Cassazione nel 1987. Purtroppo il conduttore ne uscì debilitato e morì l’anno successivo ad appena 59 anni.

I Radicali, dei quali Tortora era stato frattanto nominato presidente, promossero un referendum per l’abrogazione dei tre articoli del Codice di procedura civile, svoltosi in data 8-9 novembre 1987 positivamente.
Nelle more, però, che l’abrogazione delle norme limitative della responsabilità avesse effetto, il PSI, uno dei promotori, la DC ed il PCI, schieratisi in prosieguo in favore dell’abrogazione, compresero l’esigenza di porre comunque un “filtro” all’azione contro i magistrati, al fine di garantirne indipendenza e serenità nei processi: fu così approvata la Legge n. 117 del 1988 (c.d. Legge Vassalli), oggi oggetto del referendum in talune delle sue proposizioni.

In effetti, il “filtro” non fu un éscamotage dei partiti, per “mutilare” la vittoria – per come insorsero soprattutto i Radicali – ma era stato già ventilato dalla Corte costituzionale, in sede di declaratoria di ammissibilità del quesito, come si dirà in prosieguo.
E il “filtro” stabilì i seguenti paletti: a) eliminazione della condizione di proponibilità, costituita dall’autorizzazione da parte del Ministro; b) previsione di un vaglio di ammissibilità, affidato al tribunale competente per l’azione ad evitare un’alluvione di giudizi, seppur manifestamente infondati; c) attribuzione della competenza a un giudice naturale, non più scelto di volta in volta dalla Cassazione; d) azione giudiziaria soltanto contro lo Stato, con obbligo di rivalsa contro il magistrato, nel caso di accoglimento delle domande proposte dal privato.
Infine, con la Legge di modifica n. 18 del 2015 furono ampliati i casi di responsabilità del magistrato e fu eliminato il filtro del previo vaglio dell’ammissibilità delle domande.

L’attuale referendum – articolato con una serie di tagli di singole parole, contenute negli articoli 2, 4, 6 e 16 della Legge 117 del 1988 – consente l’azione contro il magistrato direttamente, in conformità a quanto previsto per gli altri pubblici dipendenti, salva comunque la possibilità per il danneggiante di agire direttamente contro lo Stato, quale datore di lavoro del magistrato, in base alle norme del Codice civile.

Dandosi atto che, in genere, il cittadino danneggiato da atti e comportamenti del pubblico dipendente trova più comodo agire direttamente in giudizio contro l’ente pubblico, quanto meno per la maggiore solvibilità di questo, tranne i casi eclatanti di illecito penale, c’è da chiedersi se il referendum proposto, finalizzato a consentire l’azione diretta e immediata contro il magistrato renda più efficace e immediato il risarcimento e giovi all’amministrazione della Giustizia, oppure abbia di fatto soprattutto un intento punitivo contro la categoria dei magistrati in generale, così facendo ricadere su tutti, indistintamente, taluni comportamenti eclatanti di singoli magistrati, palesemente ingiusti o persecutori, dei quali (giustamente) i mass media si sono occupati.

***

La premessa portata avanti dai promotori del referendum, secondo cui sarebbe ingiustificato il diverso trattamento dei magistrati rispetto agli altri pubblici dipendenti, che possono essere convenuti in giudizio direttamente (anche se di solito i soggetti danneggiati preferiscono agire direttamente contro lo Stato, in quanto più sicuramente solvibile) è suggestiva, ma l’esattezza della proposizione va verificata alla luce della specifica attività che il magistrato svolge.

Il magistrato amministra “giustizia” nelle ipotesi più disparate in cui si controverta di un diritto o di un interesse comunque protetto dalle leggi, nonché in materia penale, a partire dalle indagini, di competenza del pubblico ministero, al processo vero e proprio di competenza del giudice in senso stretto.
In tutte le materie (tranne, ma non sempre, in quella di giurisdizione volontaria) nel procedimento vi sono parti contrapposte.

Nel giudizio civile questa contrapposizione è più evidente: il magistrato deve dare necessariamente ragione (in tutto o in parte) ad un soggetto, con contestuale torto all’altro. In penale, poi, la contrapposizione è tra l’imputato da una parte e lo Stato, rappresentato dal pubblico ministero, a sua volta anche lui magistrato, e come tale assoggettato alla legge sulla responsabilità dei magistrati; e spesso c’è anche la parte civile, che, quale parte lesa dall’imputato, ne invoca la condanna oltre che penale anche civile (risarcimento). Nel giudizio amministrativo la contrapposizione è tra il privato ed una pubblica amministrazione. Nel giudizio tributario la contrapposizione è tra il cittadino, che si sente spesso tartassato, e l’ente impositore (lo Stato e gli altri enti territoriali). Ma anche nella giurisdizione volontaria vi può essere contrapposizione tra parti.

Il magistrato, a differenza degli altri pubblici dipendenti, svolge, quindi, la sua funzione sempre su un terreno minato e, di solito, sotto il fuoco di fila di parti contrapposte.
Soprattutto nel giudizio civile, in tutte le decisioni che il magistrato andrà ad emettere, anche se trattasi della chiusura di una finestra o di una pronuncia relativa a poche migliaia di euro, ci sarà sempre una parte che avrà di che lamentarsi, la quale, se talora si limita a mugugnare, può indursi ad agire in giudizio, invocando la responsabilità del magistrato che gli ha dato torto.

Nei procedimenti penali il rischio è pressoché limitato ai casi di condanna dell’imputato: quindi, il magistrato, se assolve, può godere di una relativa tranquillità; in questo caso, minore è la tranquillità del Pm che ha indagato e trascinato al processo il soggetto.

Nei giudizi tributari il rischio maggiore è limitato ai casi di rigetto delle domande del contribuente (ma ci può essere uno strascico giudiziario, se trattasi di tasse locali, in cui l’ente impositore è diverso dallo Stato).

In questo campo minato, il magistrato si trova ad operare con un lavoro delicato che non è limitato all’applicazione di norme, spesso farraginose e di difficile interpretazione, poiché di frequente frutto di compromessi tra opposte fazioni in parlamento ed in contrasto ontologico tra loro tra loro, ma anche ad un approfondito vaglio delle prove esibite dalle parti, e soprattutto di quelle testimoniali, spesso in contraddizione tra loro, all’interpretazione di mole di documenti (ricordo personalmente che una volta un magistrato civile mi indicò un armadio metallico, che occupava un’intera parete, dicendomi che vi erano contenute le carte di una sola causa), per non dire delle norme processuali, che costituiscono una corsa ad ostacoli per tutti gli operatori. Insomma il magistrato si deve districare tra norme, comportamenti delle parti, prove testimoniali e documentali.

La quasi totalità delle sentenze è poi soggetta ad impugnazione, con possibilità di rovesciamento in appello e di ulteriore ribaltamento in cassazione, a causa di una diversa interpretazione delle norme o di una diversa valutazione delle prove. Quindi, anche il magistrato più coscienzioso e diligente non può stare mai tranquillo che l’interpretazione da lui data alle norme o la valutazione delle prove da lui effettuata non possa in prosieguo essere ritenuta errata da altri magistrati e dar luogo a responsabilità.

Sul punto della responsabilità dei magistrati, va rilevato che la Corte costituzionale, e proprio in relazione alla disciplina relativa alla responsabilità dei magistrati, ebbe a precisare nella sentenza n. 26 del 1987, relativa all’ammissibilità del referendum del 1987 con richiamo alla precedente sentenza (v. sent. n. 2 del 1968), l’opportunità di un filtro a protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101-113 della Costituzione nel più ampio quadro di quelle “condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati” che “la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono”.

Nel pieno rispetto del principio della responsabilità del magistrato in tutte le sedi (civile, disciplinare e penale), ove abbia arrecato un danno ingiusto a taluna delle parti, è da chiedersi se la possibilità di un’azione contro i magistrati, libera da qualsiasi filtro, scopo a cui mira l’attuale referendum, non sia scevra di pericoli per una buona amministrazione della Giustizia. E da verificare, con la massima ponderazione, quali possano essere gli strumenti più adeguati che, senza di fatto rendere i magistrati legibus soluti, cioè irresponsabili per i danni arrecati ingiustamente al cittadino che invoca giustizia, nel contempo garantiscano al meglio l’indipendenza di giudizio e l’imparzialità del magistrato, requisiti per una buona amministrazione della Giustizia.

Diegus
Libero Giurista

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