A sette anni dalla epocale riforma, Liberi consorzi siciliani senza fondi e amministrati da commissari regionali
L’attuale condizione degli enti di area vasta siciliana non rispetta i requisiti minimi di democrazia e normalità
PALERMO – Nel 2014 una legge regionale ha abolito le Province siciliane sostituendole con Liberi consorzi di comuni e città metropolitane, enti rappresentativi cosiddetti di secondo grado, a legittimazione indiretta degli organi di governo, eletti non dai cittadini ma dagli amministratori dei Comuni che li compongono.
La riforma è stata concepita e pubblicizzata come una avveniristica opera di ingegneria istituzionale, incentrata sul taglio dei costi della politica e sulla sostituzione di enti istituzionali obsoleti e inefficienti con altri moderni ed efficienti, destinati a fungere da modello per la riforma delle Province nel resto del territorio nazionale. In realtà l’innovazione si è limitata al nome e al sistema di elezione degli organi di governo, mentre sono rimasti immutati l’ambito territoriale, le dotazioni di personale e di risorse, e i nuovi enti continuano tuttora ad esercitare le stesse competenze dei loro antenati. Pertanto, ad oggi, l’effetto della riforma è la riproposizione delle Province con nuovo nome, identiche competenze, risorse incerte e vertici non eletti dai cittadini.
Sette anni dopo l’avvio della riforma i Liberi consorzi sono amministrati da commissari regionali, non hanno fondi sufficienti per garantire adeguati standard di esercizio delle funzioni (manutenzione ordinaria di scuole e strade, servizi per gli alunni con handicap ecc); incontrano notevoli difficoltà a predisporre il bilancio previsionale, alcuni enti hanno sospeso l’erogazione di servizi fondamentali e segnalato il concreto rischio di default; l’ex provincia di Siracusa ha dichiarato il dissesto (nel 2018) e i cittadini sono spesso “costretti” ad agire in giudizio per ottenere la regolare erogazione di prestazioni essenziali.
La Corte dei conti ha evidenziato che la “perdurante e pericolosa fase di stallo nel processo di attuazione del disegno di riforma altera gli equilibri strutturali tra entrate e spese”, e che questa situazione ha comportato “la riduzione al minimo dell’attività istituzionale svolta dai liberi consorzi” e rischia “di degenerare in situazioni di paralisi funzionale”.
Le responsabilità di questa impasse derivano dai gravi difetti di progettazione della riforma regionale ma anche dal disimpegno finanziario dello Stato.
La carenza di risorse che pregiudica la regolare erogazione delle prestazioni ai cittadini origina principalmente dalla consistente mole di tagli alla spesa e riduzione delle entrate e dei trasferimenti statali, che ha interessato tutte le province dell’intero territorio nazionale, comprese quelle siciliane.
Lo Stato, infatti, con la cd legge Del Rio, ha notevolmente ridimensionato le funzioni delle Province, e di conseguenza ha progressivamente ridotto le entrate e la spesa di questi enti, sulla base dell’equazione meno competenze, meno spese, meno fabbisogno di risorse.
In Sicilia, invece, la legge regionale 5/2015 ha caricato di nuove e impegnative funzioni gli enti successori delle Province regionali, senza attribuire loro le risorse necessarie per finanziarle, e soprattutto senza tener conto del fatto che una quota consistente delle risorse di questi enti dipende dal bilancio e dalla legislazione statale.
Di conseguenza l’aumento delle competenze e dei relativi costi avrebbe dovuto essere concordato con lo Stato. Invece la Regione ha determinato unilateralmente le funzioni da assegnare alle nuove Province, moltiplicandone il numero e la consistenza, e soltanto quando si è reso necessario integrare le risorse si è rivolta al governo nazionale che, intanto, aveva ridotto notevolmente le competenze e le risorse delle province sul resto del territorio nazionale e pertanto si è rifiutato di sostenere gli oneri della riforma siciliana.
In assenza di adeguate risorse, Liberi consorzi e Città metropolitane non solo non hanno potuto mai esercitare le nuove funzioni, ma si sono trovati a svolgere le competenze delle vecchie province con meno risorse, a causa dei consistenti tagli ai trasferimenti statali (che nel triennio 2012/2014 si sono ridotti di quasi il 92 per cento, da 90 a 7 milioni di euro), e del continuo incremento del contributo alla finanza pubblica richiesto agli enti siciliani (passato, tra il 2014 e il 2017, da 22 a 230 milioni).
Per compensare la stretta finanziaria imposta dallo Stato, la Regione ha destinato alle nuove Province trasferimenti a carico del proprio bilancio e i recenti accordi con il governo hanno previsto l’attribuzione di risorse a liberi consorzi e città metropolitane (circa 700 milioni rateizzati sino al 2025) e un alleggerimento degli oneri finanziari.
L’insieme di queste misure ripristina più o meno la medesima condizione delle vecchie province, ma non basta a ripianare il disavanzo accumulato negli ultimi anni. Per compensare questo buco servirebbero ingenti risorse (secondo alcune stime oltre 1,5 miliardi), ma la Corte dei conti e la Ragioneria generale dello Stato hanno rilevato che un simile trasferimento sarebbe difficilmente sostenibile dal bilancio statale, e determinerebbe una condizione di privilegio rispetto alle province delle altre regioni, che pretenderebbero anch’esse l’integrale ripianamento dei propri deficit di bilancio.
Oltre a ciò, difficilmente lo Stato potrebbe accettare di coprire un disavanzo causato in misura rilevante da una riforma varata da una Regione che, invocando la propria specialità, ha adottato una soluzione opposta a quella prevista nel resto del territorio nazionale.
Intanto, dopo aver concordato con lo Stato il “completo recepimento” della legge Del Rio, la Regione ha tentato di reintrodurre l’elezione diretta da parte dei cittadini dei vertici delle nuove province, ma la norma è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, la riforma è stata modificata più volte, adottando talvolta soluzioni opposte a quelle precedenti, il Tar ed il CGA hanno sospeso i decreti che nominavano Commissari regionali al vertice delle Città metropolitane, la Regione è stata condannata dal Tar a trasferire a Liberi consorzi e Città metropolitane le nuove funzioni e le risorse necessarie a esercitarle la corretta e regolare erogazione dei servizi e delle prestazioni. e, dopo sette anni di commissariamento dei Liberi consorzi, un decreto regionale ha indetto le elezioni che consentiranno di eleggere gli organi di governo scegliendoli tra gli amministratori comunali, secondo il modello dell’elezione indiretta di secondo grado.
Da ultimo, infine, la Corte costituzionale ha evidenziato che la disciplina che individua “automaticamente” il sindaco metropolitano nel sindaco del comune capoluogo rischia di compromettere la rappresentatività dell’organo di vertice della Città metropolitana e la necessaria responsabilità politica dei suoi organi, nonché l’uguale godimento del diritto di voto dei cittadini, poiché i cittadini del Comune capoluogo “con il loro voto, eleggono sia l’organo rappresentativo del Comune che quello dell’ente intermedio”, mentre a quelli degli altri Comuni, “è precluso contribuire a tale elezione”, nonostante il Sindaco metropolitano eserciti poteri che investono allo stesso modo gli uni e gli altri.
Questi ultimi eventi hanno innescato un acceso dibattito sulla necessità di riforma delle regole di elezione degli organi di governo degli enti di area vasta siciliani, quale condizione di ripristino della democrazia e della normalità. In realtà l’elezione dei vertici istituzionali di un ente costituisce soltanto una delle componenti dei concetti di democrazia e normalità, che implicano, quantomeno, l’attuazione delle leggi vigenti e delle pronunce giurisdizionali ed il fisiologico esercizio delle competenze.
L’attuale condizione degli enti intermedi siciliani, invece, non rispetta questi requisiti minimi, poiché Liberi consorzi e Città metropolitane siciliani non esercitano le funzioni previste dalla legge regionale, la Corte dei conti denuncia che il progressivo aggravamento delle condizioni finanziarie dei nuovi enti di area vasta rende “elevato il rischio di compromissione della resa di funzioni e servizi essenziali”, i cittadini siciliani, per ottenere standard accettabili di servizi pubblici, sono stati costretti a rivolgersi al Tar Sicilia che, nel 2017, ha condannato la Regione a trasferire alle ex province regionali le nuove funzioni e le risorse necessarie a esercitarle adeguatamente.
Ciò nonostante, a sette anni dalla sua adozione ed a quattro dalla sentenza del Tar che ne impone l’attuazione, la riforma delle Province siciliane resta ancora pressoché incompiuta, e non sono stati definiti i passaggi fondamentali per la sua attuazione: individuazione delle competenze comunali e del personale da trasferire a liberi consorzi e città metropolitane, definizione delle nuove piante organiche, ricognizione del costo delle funzioni, individuazione delle risorse.
Nella situazione attuale, peraltro, l’attuazione della riforma, attraverso l’attribuzione di ulteriori funzioni ai “nuovi” enti, si rivela impensabile, poiché l’eventuale buon esito del contenzioso e della trattativa con lo Stato – tutt’altro che scontate – fornirebbe tutt’al più le risorse per finanziare il costo delle competenze attuali, cioè quelle delle vecchie province, ma non consentirebbe di trasferire a liberi consorzi e città metropolitane le funzioni previste dalla legge regionale, di cui peraltro non si conosce precisamente il costo.
Oltre a ciò la legge regionale dispone che l’attuazione della riforma non può comportare “ulteriori oneri per la finanza pubblica regionale”, e di conseguenza le nuove funzioni di Liberi consorzi e Città metropolitane dovrebbero essere finanziate dallo Stato, oppure attraverso l’istituzione di nuovi tributi o l’attribuzione risorse attualmente destinate alla Regione o ai comuni. Ciò richiederebbe, con tutta evidenza, complesse attività che rischierebbero, peraltro, di compromettere i fragili equilibri finanziari regionali e locali o di aumentare ulteriormente la pressione fiscale a carico di cittadini ed attività produttive.
Qualsiasi intervento deve, pertanto, necessariamente partire dalla ridefinizione delle competenze delle ex-province, in modo da garantire la reale funzionalità delle amministrazioni e la disponibilità di risorse adeguate alle attività istituzionali di pertinenza.
In particolare, nella situazione attuale, risultano configurabili due opzioni: una nuova “riforma” che modifichi le funzioni e le competenze degli enti eredi delle province, in moda da renderle coerenti con le risorse disponibili, ed un’attuazione razionale e graduale della legge del 2015.
In questa ipotesi una soluzione alla complessa vicenda potrebbe derivare dall’adozione di un meccanismo flessibile di assegnazione delle competenze, come quello statale, che preveda in una prima fase l’attribuzione di un numero limitato di funzioni fondamentali, coincidenti con quelle svolte dalle province del resto del territorio nazionale, in modo da garantire nell’immediato l’effettiva corrispondenza tra costi delle funzioni e risorse. Successivamente si potrebbe prevedere l’attribuzione di altre funzioni, ma solo in seguito all’individuazione di risorse sufficienti a garantire l’erogazione di un livello adeguato di servizi e prestazioni.
Il riassetto istituzionale dovrebbe riguardare l’intero sistema dei poteri locali, la struttura periferica regionale e la vasta galassia di società partecipate, enti e organismi strumentali, agenzie, soggetti d’ambito, unioni, Gal, convenzioni, distretti, consorzi, etc. Ciò consentirebbe di garantire l’effettiva corrispondenza tra costi delle funzioni e risorse, di salvaguardare l’autonomia siciliana scegliendo le competenze da assegnare alle nuove province e al contempo di offrire ai cittadini e alle imprese un livello adeguato di servizi e prestazioni senza gravare troppo sulle tasche dei contribuenti, razionalizzando un vasto apparato che la Corte dei conti ha definito “fuori controllo” ed eliminando duplicazioni e sovrapposizioni di competenze che appesantiscono l’azione pubblica e ne annacquano le responsabilità.
Una simile soluzione, probabilmente, faciliterebbe anche il negoziato finanziario con lo stato, considerato che comporterebbe il recepimento della riforma statale delle province e la razionalizzazione dell’assetto degli enti locali e del sistema delle società partecipate regionali, profili molto rilevanti del recente accordo di finanza pubblica tra Stato e Regione.