Accordo domanda-offerta lavoro
La legge n. 26 del 2019 sul Reddito di cittadinanza ha avuto, fra gli altri, il difetto di ritenere che l’accordo (o il raccordo) fra domanda e offerta di lavoro potesse essere affidato ai Centri per l’impiego (Cpi).
Si è trattato di un errore marchiano per due ragioni: la prima è che tali Cpi sono governati dalle singole Regioni con criteri diversi, ma tutti con inesistenti risultati. La seconda è che i cosiddetti “navigator” si sono improvvisati professionisti e, nonostante non fossero stati capaci di trovare il lavoro per loro, si pensava l’avrebbero dovuto trovare per gli altri.
Un vizio italico stabilire certe attività che, invece, dovrebbero fare professionisti addestrati e formati. Ma i “navigator”, invece, non possiedono né addestramento né formazione.
Solo degli incompetenti e inconcludenti ministri e legislatori potevano architettare un’attività inesistente e irrealizzabile, come è stato ampiamente dimostrato dai fatti.
La questione di fondo consiste nel fatto che non solo i cosiddetti “navigator”, ma anche gli attuali addetti ai Cpi, non hanno addestramento né professionalità, tanto è vero che non raggiungono risultati, nel senso di trovare lavoro a chi eventualmente lo chieda. Sembra infatti che fra gli iscritti, solo qualche punto percentuale di essi viene collocato.
A parte l’incapacità professionale di tali addetti ai Cpi, vi sono altre cause del fallimento del loro lavoro, che per altro costa decine e decine di milioni a tutte le Regioni.
La prima consiste nella scarsa quantità di persone che cercano lavoro e che non vanno ad iscriversi negli elenchi dei Cpi; la seconda consiste nel fatto che alle imprese, che dovrebbero assumere, non passa per la testa l’idea di rivolgersi agli stessi Cpi. Per cui, c’è scarsa offerta e scarsa domanda di lavoro in tali organismi.
Ma allora, il problema è senza soluzione? Non solo le soluzioni vi sono, ma sono già in atto funzionanti. Di che si stratta? Di tutte le aziende che gestiscono il cosiddetto lavoro interinale e che si occupano proprio di cercare il personale richiesto dalle imprese e addirittura di gestire personale direttamente “prestato” alle imprese stesse dietro compenso.
Quindi, se le soluzioni ci sono, perché non utilizzarle? Perché non abolire o estinguere tali Centri per l’impiego e destinare le risorse che si spendono per pagare stipendi inutili – a giudicare dai risultati – alle aziende di lavoro interinale affinché si occupino dell’accordo (o raccordo) fra domanda e offerta di lavoro?
Intendiamoci bene, non stiamo scrivendo un’operazione di marketing, bensì una valutazione di buonsenso che dovrebbe portare decine e decine di migliaia di cittadini/e a trovare lavoro adeguatamente.
Risulta dalle statistiche comunicate tutti i giorni che le imprese hanno bisogno di oltre trecentomila persone e quindi chiedono di poterle assumere, ovviamente se hanno i requisiti necessari al funzionamento dell’impresa richiedente. E, d’altra parte, risulta che vi siano altrettante centinaia di migliaia di disoccupati che vorrebbero lavorare, ma non trovano impiego. Si tratta di una discrepanza intollerabile perché ci sono le soluzioni, ma non si vogliono adottare.
Fra i disoccupati (il tasso italiano è intorno al 7,9 per cento), ve ne sono moltissimi che non vogliono nulla, altri che non cercano il lavoro e una terza categoria di età inferiore che non studia e non lavora: i cosiddetti Neet. Al riguardo, occorrerebbe una forte azione delle Regioni per spiegare come, ai fini di ottenere un lavoro, bisogna apprendere e incamerare competenze.
Già le aziende assumono molti apprendisti e stagisti, cui è doveroso eticamente corrispondere qualche emolumento; mentre le Regioni hanno nei loro bilanci cospicue risorse, per centinaia e centinaia di milioni che destinano alla formazione regionale.
Ecco lo strumento idoneo per fornire competenze a chi non le ha: la formazione regionale. Ma essa non funziona, ovviamente non in tutte le Regioni. Non funziona per il semplice motivo che non è raccordata con il mondo del lavoro.
Insomma, si effettuano corsi di formazione da cui escono persone che continuano a non avere competenze e quindi non trovano lavoro.
Il piatto è servito, ma c’è chi non ha appetito e non vuole mangiare.