L’analisi del giornalista, scrittore e drammaturgo Roberto Alajmo
Roberto Alajmo, scrittore, giornalista, drammaturgo e intellettuale, dal 1988 al 2022 ha lavorato al Tg3 Sicilia della Rai, oltre a collaborare con diverse testate nazionali. È stato direttore dell’Ente Teatro Biondo Stabile di Palermo. In questi ultimi trent’anni ha raccontato il territorio sia come giornalista sia come scrittore. Con lui il QdS ha voluto parlare della città soprattutto dal punto di vista culturale.
Dalle stragi del 1992 agli ultimi episodi di violenza. Palermo è solo questo?
“Si tratterebbe di una sintesi eccessivamente semplificativa, perché in mezzo ci sono molte cose che è valsa la pena aver vissuto. Certo che, se dovessimo entrare subito nel vivo, questa città dà l’impressione di essere sempre quel genere di fotografia un po’ mossa ma che sempre fotografia è. Secondo il famoso verbo che sintetizza molta Sicilia, ‘s’annaca’, ossia si muove molto ma si sposta pochissimo. Sono passati trent’anni ed effettivamente certe volte lo sconforto sembra prevalere, comunque questi trent’anni e passa che sono trascorsi hanno meritato di essere vissuti”.
Il periodo successivo alle stragi del 1992 è definito il momento della consapevolezza. Sei d’accordo su questa definizione?
“Sì, ma Palermo si è trovata nella stessa situazione dei gatti che fanno la pipì nel salotto, gli si mostra il danno che hanno fatto e gli si fa capire che non si fa, ed effettivamente il gatto non lo fa più, almeno fino alla prossima volta. Palermo ha capito che aveva delle responsabilità e le aveva anche chi riteneva di non averle. La città in questo trentennio ha fatto un bel giro ma in realtà è come se fossimo saliti su un autobus turistico da cui si vedono anche posti molto belli ma non entri nelle zone pedonali, non vedi gli aspetti più fetenti. E soprattutto quell’autobus ti lascia esattamente dove ti ha preso. Rimane la soddisfazione di aver fatto un bel giro ma hai il sospetto di avere girato a vuoto”.
Dal punto di vista culturale, negli anni Sessanta e Settanta c’era un enorme fervore culturale. Penso alla nascita del nuovo teatro palermitano, al giornale L’Ora in cui scrivevano grandi intellettuali come Sciascia, Consolo, Saladino e altri, al “Palermo Pop ‘70”. Tutto ciò, anziché essere prodromico a un forte sviluppo della città per portarla al livello delle grandi città europee, è stata una stagione che si potrebbe definire un sogno, seguito solo da un brusco risveglio. Perché?
“C’è stato un momento in cui effettivamente per la cultura a Palermo erano disponibili grandi risorse economiche. La cultura, sia chiaro, può essere fatta a costo zero, o quasi, ma quello che ne esce è poco più di un brusio culturale di scarsa levatura. Ci sono stati anni in cui, in questa città, erano di casa Tadeusz Kantor, Pina Bausch e la loro presenza non era esclusivamente legata al fatto che Palermo fosse bella e stimolante ma al fatto c’era il denaro necessario per pagarli. Oggi, che quelle risorse non ci sono più, gli abiti di gala si sono sdruciti e siamo rimasti in mutande. Mi spiego meglio. Si è capito che questi grandi nomi hanno lasciato un seme, raccolto da personaggi come Emma Dante e Davide Enia, per citarne due, che si sono lasciati fertilizzare da quel periodo in cui Palermo poteva sembrare una capitale. Ma è anche vero che queste persone ormai fanno la loro carriera fuori da Palermo, qua è rimasta la paccottiglia, e lo dico con la consapevolezza che io sono uno di quelli rimasti. Tutti i fenomeni che ricordiamo come meravigliosi nella nostra infanzia o adolescenza culturale, richiedevano denaro, penso anche ai grandi convegni musicologici degli anni Sessanta e Settanta, al ‘Festival del ‘900’ ma anche a edizioni prestigiose del ‘Festino’ che sono servite anche a formare l’immaginario culturale di persone che oggi lavorano fuori dall’isola. Il Festino oggi si organizza in quindici giorni e su base volontaria. È evidente che al di là della devozione e della disponibilità a lavorare gratis, o per un compenso limitato, si tratterà di persone libere in quel periodo, disponibili a lavorare nel mese di luglio, senza neanche un minimo di programmazione. Mi dispiace stigmatizzare alcune situazioni ma penso che la cultura debba essere finanziata anche perché non si tratta di un’abitudine recente ma che affonda le sue radici nei secoli. Anche le tragedie greche erano finanziate dallo Stato. Tutto ciò non è qualcosa di cui vergognarsi perché questo crea un indotto economico, su basi più ampie, che funziona. Palermo sollecita la fantasia di molti, compresa la mia, ma mettersi al servizio di un’idea di città è cosa molto diversa”.
Si può uscire da questa empasse che dura, oramai, da troppi anni?
“È difficile riuscire a sollevarsi da questa sorta di languore economico, anche perché le grandi capitali, penso a Milano o a Berlino, hanno anche una borghesia imprenditoriale, sponsor privati, realtà da noi inesistenti. Qui passa tutto all’assessore alla Cultura di turno che deve fare i conti con i pochi finanziamenti pubblici disponibili. È inevitabile che questo generi una cultura di respiro provinciale”.
È un problema di classe politica o non solo?
“È anche un problema di classe politica ma che non inizia né oggi né ieri. Temo che non se ne possa uscire facilmente perché, come già dicevo riguardo agli artisti, l’emigrazione dalla Sicilia degli ultimi anni è stata soprattutto un’emigrazione intellettuale. Tutta la classe dirigente potenziale è emigrata e, salvo casi sporadici, non torneranno a Palermo a far valere la loro formazione e la loro intelligenza. L’élite di domani è già scappata quindi la prossima classe politica da chi sarà formata? Da quelli che sono rimasti, che sono quasi sempre i meno in gamba. Una cattiva classe politica può solo generarne una pessima”.
Per parafrasare il titolo di uno dei tuo libri, Palermo è ancora una cipolla?
“Palermo continua a essere una cipolla specialmente nel senso che, alla fine di questi strati che andiamo scartando, non c’è un nocciolo, non c’è un’anima vera. Bisogna avere il coraggio di fermarsi a uno strato intermedio e apprezzarlo, sapendo che, in fondo, stringi stringi non troverai molto più di quello, e devi fartelo bastare”.