ROMA – Un diritto, anche se è già conquistato, va difeso. Un tabù che crea ambiguità, va abbattuto. Se per entrambe le questioni, poniamo come soggetto il corpo della donna, viene fuori un ragionamento lineare: sono tanti i diritti ottenuti sull’autodeterminazione del corpo femminile, ma non tutti vengono sempre riconosciuti in pieno o, perlomeno, non sempre esistono le condizioni affinché questi diritti si possano pienamente applicare. Le ragioni possono essere non solo economiche o politiche, ma anche etiche. E intorno all’utero delle donne – inteso per secoli come generatore di vita – la decisione pare che diventi collettiva, più che personale. “Voglio abortire”. E si attiva una macchina, affollata di figure (a volte ostili, a volte no), che ogni tanto si inceppa.
I motivi per cui una donna vuole abortire
Sono svariati i motivi per cui una donna vuole abortire: condizioni economiche avverse, stato di salute non favorevole, solitudine, rapporti sessuali non consenzienti o semplicemente la determinazione di non volere figli. Condizioni che avviano l’orologio “maledetto” di un tunnel fatto di dubbi, pressioni, chilometri da percorrere, sale d’attesa ostili, giorni di meditazione forzata. Un tunnel con un bivio ed un percorso ad ostacoli. Non è difficile che una donna provi un senso di colpa nel chiedere l’interruzione volontaria di gravidanza: o almeno succede se non è “fortunata” e incontra le condizioni di assistenza “sbagliate”. Ma quello di abortire dovrebbe essere un diritto, non un percorso a ostacoli.
Da un lato in Italia abortire è una scelta, o almeno una delle opzioni plausibili, che la donna può prendere in considerazione nel caso di una gravidanza indesiderata. Questo lo dice la legge 194 del 1978 che riconosce l’Ivg “entro i primi novanta giorni” nelle condizioni in cui “la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo”. Ma nella stessa Italia un…

