“Ci dici che la finisca. Diglielo: ‘Mi ha detto mio suocero di finirla’ e ce lo dà per gli animali”. Quando in ballo c’erano i terreni agricoli a Santa Margherita di Belice, Pietro Campo, mafioso che nel 2009 avrebbe ospitato Matteo Messina Denaro, parlava da padrone. Nonostante non fosse né proprietario, né gestore, né campiere, né libero. Campo, infatti, avrebbe impartito ordini sulle proprietà altrui anche mentre era rinchiuso in carcere.
La tesi è sostenuta dai magistrati della Dda di Palermo che ieri hanno ottenuto l’esecuzione di cinque misure cautelari nei confronti di un gruppo di pastori collegato a due famiglie che operano nel piccolo centro che fa parte della provincia di Agrigento e che nella geografia di Cosa nostra rientra nel mandamento di Sambuca di Sicilia, insieme a Sciacca, Montevago e Menfi.
Al centro delle indagini ci sono una serie di estorsioni attuate ai danni di chi avrebbe avuto tutti i diritti per disporre di centinaia di ettari e che invece, sulla scorta della tradizione e della paura incussa sulle vittime, sarebbero state appannaggio del clan. Il lavoro degli investigatori è stato reso possibile grazie all’ammissione dei soprusi subiti. Tra le persone su cui le famiglie Campo e Ciaccio avrebbero esercitato le pressioni c’è anche un dipendente regionale in servizio nella diga Arancio.
Le vicende raccolte nell’ordinanza firmata dal giudice per le indagini preliminari Filippo Serio parlano di una mafia dei pascoli apparentemente più arcaica rispetto a quella che, negli ultimi anni, è finita ripetutamente sui giornali per via delle truffe sui fondi europei della Politica agricola comune.
Pietro Campo, già a fine anni Novanta condannato perché ritenuto il consigliere del boss di Montevago Giuseppe La Rocca, e i propri familiari – il figlio Giovanni e il genero Piero Guzzardo –, ma anche Pasquale Ciaccio, cugino di Campo ma capace di agire in autonomia, avrebbero sfruttato lo spettro di Cosa nostra per garantirsi la possibilità di far pascolare le proprie greggi sui terreni del circondario e, al contempo, avere la possibilità di gestire in autonomia la raccolta della paglia e della sulla. Concessioni ottenute dai gestori dei terreni il più delle volte senza bisogno di spingersi in concrete minacce. Sarebbe bastato il curriculum criminale. “Ho paura di rendere queste dichiarazioni e temo di potere avere ripercussioni su di me o sulla mia famiglia”, ha ammesso davanti agli inquirenti una delle vittime. Amministratore di terreni, per lungo tempo avrebbe accettato che gli animali degli indagati brucassero l’erba in cambio di una somma inferiore a quella spesa per la semina dei campi. Soldi che, in alcuni casi, neanche sarebbero stati corrisposti del tutto.
“La situazione è questa. L’abitudine diventa legge, devono fare quello che vogliono. Io posso decidere di non darglieli ma non l’ho mai fatto e non so dire il perché. Inconsciamente ho paura, perché sono mafiosi, c’è timore e uno accetta il prezzo”, ha detto un’altra vittima in merito alle cifre proposte dai pastori.
Tra i Campo e i Ciaccio ci sarebbero stati anche frizioni. Con il genero di Pietro a recriminare un’invasione da parte del gregge del secondo in terreni che non gli spettavano. Alla fine, però, i dissidi si sarebbero ricomposti. “Peggio dei villani non ci dobbiamo diventare”, sarebbe stato il punto di sintesi.
Tra chi ci avrebbe rimesso ci sono anche alcuni agricoltori, alcuni provenienti da comuni del circondario. E tanto sarebbe bastato per i pastori ritenuti contigui a Cosa nostra per imporre, con ancora più forza, i propri volere. “È emerso che Pietro Campo e Piero Guzzardo hanno esercitato indebite pressioni per costringere gli interessati a recedere da accordi già conclusi aventi ad oggetto la concessione in affitto di terreni per la coltivazione di meloni”, scrive il gip. Ed è parlando di meloni, e dei danni che queste piantagioni avrebbero causato alle greggi per l’impossibilità di brucare l’erba, che Pietro Campo dal carcere avrebbe detto ai propri familiari di intervenire su uno dei gestori dei terreni. “Campo, seppure detenuto, rivestiva una posizione di comando”, ha sottolineato il gip. Nel complesso sono 18 gli ettari che avrebbero dovuto ospitare le coltivazioni di meloni.
A spiegare come a Santa Margherita di Belice la mafia abbia da sempre disposto dei campi sono stati due collaboratori di giustizia. “Le spartizioni dei terreni per il pascolo risalgono a tempi antichi – ha messo a verbale Calogero Rizzuto – Un nuovo pastore può inserirsi solo se gli danno il permesso e se non disturba nessuno. Deve andare da chi gestisce la famiglia mafiosa e chiedere il permesso”. Rizzuto ha spiegato che per determinare gli accordi non c’era bisogno di passare dai contratti. Bastava la presenza fisica. “Se i proprietari non avessero dato il terreno per il pascolo ai pastori, avrebbero usato la forza. Funziona così”. E chi avrebbe provato a sottrarsi alle pressioni sarebbe andato incontro a inevitabili ritorsioni: “Avrebbero subìto qualche azione, gli tagliano viti o altro”. Dello stesso avviso il collaboratore Vito Bucceri. “Mai nessuno si ribella, si fanno solo denunce contro ignoti. Se i pastori si prendono i terreni per pascolare senza pagare, i proprietari non si lamentano, perché hanno paura”.
Gli indagati avrebbero sfruttato anche i terreni a ridosso della diga Arancio. Agli atti dell’inchiesta è finita anche una telefonata tra Pasquale Ciaccio e un dipendente regionale. Il primo, lamentando il mancato rispetto dei patti da parte di un altro pastore, ha cercato l’intercessione del custode. “Vacci, io mi voglio godere mia moglie e i miei figli”, sono le parole pronunciate da Ciaccio, e collegate alla recente scarcerazione. E a cui ha fatto seguito l’avvertimento: “Me la prendo pure con te, vedi”.
Al telefono, tuttavia, il dipendente della Regione risulta avere tenuto testa: “Non vado in nessun posto”, è stata la risposta. Gli inquirenti, però, hanno appurato che dopo avere finito la conversazione, il dipendente ha eseguito la richiesta proveniente dal cugino di Pietro Campo. “Sono rimasto impressionato dalla telefonata ricevuta da Pasquale e non ho voluto che questa situazione mi creasse ulteriori preoccupazioni”, ha spiegato il custode della diga ai magistrati.