“Quotidiano di Sicilia” ha voluto parlare con Geraldina Piazza, nipote del consigliere Terranova che, seppur giovane, lo ha conosciuto e ha condiviso con lui le gioie di una vita familiare
Era il 25 settembre 1979. Una pioggia di fuoco di proiettili esplosi da un fucile Winchester e da diverse pistole si abbatté su Cesare Terranova, magistrato applicato alla Procura di Palermo, e Lenin Mancuso, suo collaboratore.
“Quotidiano di Sicilia” ha voluto parlare con Geraldina Piazza, nipote del consigliere Terranova che, seppur giovane, lo ha conosciuto e ha condiviso con lui le gioie di una vita familiare.
Chi era lo zio Cesare?
«Ho abitato con la mia famiglia per una decina d’anni nello stesso palazzo. Avendo perso mio padre molto presto, all’età di 13 anni, lo zio Cesare è stato, per me, una figura maschile di riferimento. Lui e la zia Giovanna, la sorella di mia madre, non avevano figli. I suoi impegni, sia istituzionali sia politici, non gli concedevano molto tempo ma la sua è sempre stata una figura cui chiedere un consiglio o anche solo chiacchierare. Avevamo un’abitudine, in quegli anni, che era quella di andare assieme a fare la spesa. Andavamo, con il carrello, alla Standa in via Libertà e veniva con noi Lenin Mancuso, suo collaboratore che si occupava anche della sua tutela. Regolarmente, rientrando, la zia Giovanna ci chiedeva se avessimo comprato di che preparare la cena e regolarmente, dal carrello, spuntavano invece whisky, patatine, biscotti e dolciumi vari, in pratica nulla con cui si potesse preparare un pranzo o una cena, ma avevamo trascorso assieme un po’ di tempo divertendoci».
Quindi Cesare Terranova era anche un personaggio divertente?
«Assolutamente sì. Voglio ricordare un’altra abitudine che coinvolgeva lo zio Cesare e la zia Giovanna. Lui era, come mio padre, un appassionato lettore dei “Gialli Mondadori”. Prima di salire al piano in cui abitava, regolarmente, lo zio Cesare passava da noi per salutare e, altrettanto regolarmente, chiedeva conferma a mia madre che non avesse buttato, appunto, quelli di mio padre. Periodicamente andavamo in un negozio di libri che acquistava volumi usati per venderli, nei pressi del Tribunale. Era una vera e propria trattativa quella che si svolgeva tra lo zio e il libraio, al fine di spuntare il miglior prezzo possibile, nella migliore tradizione dei suk arabi. Quanto ricavato dalla vendita era equamente diviso tra lo zio e la mamma. Subito dopo andavamo nel suo ufficio, a Palazzo. Tutti quelli che incontrava nei corridoi erano invitati nel suo ufficio. Ordinava gelato e brioche per ognuno dei presenti, regolarmente spendendo molto di più di quanto avesse realizzato con la vendita dei romanzi gialli che aveva venduto. Lo zio Cesare era anche un buongustaio, molto goloso, e un amante e grande conoscitore dei vini».
Quando hai scoperto, professionalmente intendo, chi era Cesare Terranova?
«Lo scoprii in occasione di una sua indagine ma ci fu un fatto che mi fece capire di quale “pasta” fosse fatto. Quando ci trasferimmo, e quindi lasciammo l’appartamento che era nello stesso palazzo in cui viveva lo zio, ci venne a trovare. Al suo arrivo ci disse che aveva guardato la pulsantiera dei citofoni e si era reso conto che, al piano sottostante quello del nostro appartamento, viveva Salvo Lima. Nonostante l’aria di festa per il nuovo appartamento, ci disse che non sarebbe più potuto venire a trovarci a casa perché qualcuno avrebbe potuto pensare che frequentasse quel palazzo per la presenza, appunto, di Salvo Lima. Dopo quell’occasione, ci siamo sempre incontrati da altre parti. Dal punto di vista, diciamo, investigativo lo conobbi in occasione del caso delle “bambine di Marsala”. Venne a trovare mio padre, che era appena uscito dall’ospedale, e ci raccontò com’era riuscito a far confessare il colpevole di quel triplice omicidio. La cosa, vista la mia giovane età, mi colpì moltissimo.
Sempre a proposito della sua attività professionale, ricordo che, quando ancora vivevamo nello stesso palazzo, ci avesse chiesto di non ritirare alcunché fosse recapitato a lui, pacchi o quant’altro. Percepimmo, quindi, che c’era un pericolo che lo accompagnava costantemente nella sua vita».
Dov’eri il 25 settembre 1979?
«Ero a casa con mia madre. Ci telefonò un’altra sorella di mamma che ci disse che era successo qualcosa in via Rutelli. Ci precipitammo immediatamente lì. La Polizia bloccava già l’accesso alla zona. Abbandonammo, letteralmente, l’auto. Sia per la somiglianza fisica di mia madre con Giovanna, sua sorella e moglie dello zio, sia per il nostro viso stravolto, ci fecero passare. Lo zio Cesare era ancora lì, nell’auto. Lenin Mancuso era già stato portato in ospedale, dove morì poco, dopo ma il corpo dello zio era ancora nell’auto, immerso nel suo sangue. Riconobbi lui, la sua auto poi corremmo immediatamente dalla zia. La trovammo seduta sul divano, con la testa tra la mani che diceva ”non è possibile… non è possibile”».
Qual è stata la reazione della città, di quella Palermo, dopo l’assassinio di Terranova e Mancuso?
«Una sola parola, pessima. Basti ricordare che, quando decidemmo di mettere una targa per ricordare quanto era successo, non la potemmo mettere esattamente nel luogo in cui ciò era successo perché c’era un autolavaggio circondato da una rete. Chiedemmo, quindi, ai condomini del palazzo di via De Amicis che era all’angolo, il permesso di poterla mettere lì. Ci fu risposto di no. Questa è una città che ha preferito non vedere per poter ignorare a anche in quel caso, Palermo non si smentì. Questa è una città che voleva mandare i magistrati a vivere fuori città, in una cittadella, per evitare sia di avere sotto gli occhi quotidianamente la necessità dei servizi di scorta e quindi della pericolosità della mafia, sia per evitare di essere coinvolti nelle eventuali ritorsioni mafiose. Conservo ancora una lettera che mi mandò Giovanni Falcone. Dopo la morte dello zio lui diventò il mio riferimento. Io gli scrissi in occasione dell’eccidio di via Carini, quello in cui morirono Carlo Alberto dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo per dimostrargli la mia solidarietà e dargli il mio appoggio. Mi rispose dopo un po’ di tempo, proprio nel periodo in cui, sul “Giornale di Sicilia”, fu pubblicata la lettera di una cittadina che chiedeva, come dicevo, di spostare i magistrati fuori città. “Altro sangue sarà versato”, c’era questo scritto in quella lettera che ancora conservo.
Penso che la stessa cosa sia successa anche la strage di Capaci, ma non solo. Dopo quella strage, pensai che sarebbe stato importante realizzare in quel tratto autostradale un sopra passo, per lasciare quel cratere a vista, a imperitura memoria. Qualche giorno dopo la strage andai a Parigi e rientrai dopo una quindicina di giorni. Al mio ritorno l’autostrada era stata completamente riparata e tornata come prima. “Occhio non vede, cuore non duole”.»
Le scorribande alla Standa, la vendite dei romanzi gialli, oltre a questo cosa ti manca dello zio Cesare?
«Ero piccola a quel tempo e, devo dirti, mi mancano i piccoli attimi di quotidiana felicità».
Roberto Greco