Anche se le responsabilità appurate in primo grado sono state tutte confermate, la pena andava ridotta. È il giudizio che il presidente della prima sezione penale della Corte d’appello di Messina, Antonino Giacobello, ha dato nel processo di secondo grado a Basilio Ceraolo, 74enne ingegnere di Capo d’Orlando, che, nel 2021, nelle vesti di direttore dei lavori di un appalto a San Marco d’Alunzio (Messina), cercò di spingere un imprenditore a non rispettare quanto previsto nel progetto di consolidamento di un costone roccioso.
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Il professionista propose di risparmiare sui tiranti in ferro, riducendone la lunghezza di diversi metri, e offrendo la disponibilità a pagarli nella loro interezza, con l’obiettivo di spartirsi il guadagno – oltre centomila euro a testa – che ne sarebbe derivato.
Quella che sarebbe stata una frode sulle pubbliche forniture, a discapito dello Stato e della sicurezza della popolazione, si trasformò però in un boomerang per Ceraolo: l’imprenditore, infatti, dopo avere finto di accettare il patto, andò a denunciare tutto alla guardia di finanza.
Tentata concussione
Basilio Ceraolo è stato condannato in primo e secondo grado per tentata concussione. Si tratta del reato previsto dall’articolo 317 del codice penale e si configura quando “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio” abusa della propria posizione per costringere qualcuno “a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”.
Nell’appalto di San Marco d’Alunzio, la costrizione nei confronti dell’imprenditore sarebbe scaturita dalla possibilità da parte di Ceraolo di mettere il bastone tra le ruote al momento di dare via libera ai cosiddetti Sal, gli stati di avanzamento dei lavori, ovvero le tranche con cui le stazioni appaltanti pagano man mano le aziende.
Piano di Ceraolo saltato
Il piano di Ceraolo, tuttavia, è saltato quando colui che sarebbe dovuto diventare suo complice ha deciso di rivolgersi alla giustizia. L’imprenditore, prima in maniera autonoma e poi suportato dalla guardia di finanza, ha raccolto le prove che hanno consentito sia al tribunale che alla Corte d’appello di appurare la colpevolezza del direttore dei lavori.
In primo grado, la pena è stata di tre anni e due mesi, mentre in secondo è stata ridotta a due anni e otto mesi. Tale computo è stato frutto di una serie di fattori. Innanzitutto, l’ingegnere è stato condannato per tentata concussione: il codice penale prevede che in caso di un reato soltanto tentato, in questo caso non andato in porto per la decisione dell’imprenditore di denunciare, si ottiene una riduzione da uno a due terzi della pena.
A ciò si devono aggiungere gli effetti della scelta di Ceraolo di essere processato con il rito abbreviato: tale formula prevede la valutazione della posizione dell’imputato sulla scorta degli elementi raccolti durante le indagini, senza passare dal dibattimento, In cambio della riduzione dei tempi processuali, l’imputato ottiene la riduzione della pena di un terzo.
Il calcolo della corte d’appello
Per arrivare alla quantificazione di due anni e otto mesi dalla pena, la Corte d’appello di Messina è partita dalla pena minima (sei anni) per la concussione, ridotti a quattro nella forma del tentativo. Dopodiché è stato sottratto un anno e quattro mesi, come effetto dello scontro previsto dal rito abbreviato.
Nelle motivazioni della sentenza, depositate nelle scorse settimane, si legge che “non si ravvisano elementi positivamente apprezzabili ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, a fronte delle circostanze già valutate sfavorevolmente dal primo giudice”, ma al contempo che “si ritiene che la pena inflitta in primo grado sia eccessiva rispetto all’entità del reato”.
La posizione della Corte
Una posizione, quella della Corte, che riporta l’attenzione sulle attuali capacità del codice penale, e della legislazione in materia di prevenzione e persecuzione dei reati in materia di appalti pubblici. Un fenomeno che è dilagante, come testimoniato dalle cronache tra turbative d’asta manifeste, mazzette e sospetti di accordi sotto banco.
Una situazione che è stata favorita anche dal codice degli appalti voluto nel 2023 dal governo Meloni, che ha innalzato fino a oltre cinque milioni di euro la soglia sotto la quale è possibile optare per le gare a numero chiuso e ha affidato ai funzionari (e non al sorteggio) la scelta delle imprese da affidare. Così facendo le maglie della rete dei controlli sono ampissime, come di recente segnalato anche dall’Anticorruzione. Ma se le falle nella prevenzione sono evidenti, è lecito nutrire dubbi sulla capacità sanzionatoria dell’autorità giudiziaria.
Il caso San Marco d’Alunzio
Il caso di San Marco d’Alunzio potrebbe passare in secondo piano se ci si soffermasse davanti al dato – di per sé significativo – per cui grazie a una denuncia è stato possibile condannare un colletto bianco che puntava a lucrare alle spalle dello Stato.
In realtà, sarebbe necessario chiedersi quale sia la forza deterrente di un sistema che, davanti a condotte non solo illeciti ma anche pericolose, come nel caso di suggerire la riduzione della lunghezza dei tiranti in ferro da utilizzare, stabilisce pene di durata limitata anche a fronte – per citare la sentenza – “dell’entità del reato”. Un’altra domanda da porsi, ed è molto probabile che a porsela siano innanzitutto coloro che sono propensi a dare e prendere mazzette, o più in generale a forzare il sistema delle regole, è: il gioco vale la candela? La sensazione è che attualmente in pochi direbbero di no. E il discorso cambia se lo stesso quesito verrebbe sottoposto a quanti invece dovrebbero essere sostenuti a denunciare: tra un inghippo burocratico e l’altro, il cantiere di San Marco d’Alunzio è rimasto bloccato per anni dopo che l’imprenditore è andato in procura.

