Da quando il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata, il dibattito sull’attribuzione alle Regioni di maggiori competenze e risorse per gestire autonomamente settori fondamentali per lo sviluppo socio-economico territoriale vive fasi alterne di tensioni e silenzio.
Il testo recentemente approvato al Senato consente alle Regioni di acquisire competenze in materia di ambiente, scuola ed università, tutela della salute, lavoro; energia, attività produttive, commercio con l’estero e rapporti internazionali e con l’Unione europea, protezione civile, governo del territorio, porti ed aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, ordinamento della comunicazione, paesaggio e beni culturali, professioni, ricerca.
Il federalismo asimmetrico mira a realizzare un sistema unitario ma pluralista (unità nella diversità), in grado di rispondere alle esigenze economico-sociali molto differenziate dei vari contesti territoriali.
L’assunto è che l’eterogeneità dei territori rende difficile gestire dal centro in modo uniforme funzioni come la sanità e l’assistenza, mentre attribuire alle istituzioni locali i poteri e le responsabilità per i servizi e le prestazioni che possono essere più efficientemente gestite a livello territoriale dovrebbe garantire maggiore efficienza ed aderenza agli specifici bisogni dei cittadini, perché consente di svolgere le stesse attività adeguandole alle caratteristiche ed esigenze differenziate dei singoli contesti territoriali, di sperimentare soluzioni diverse, e di responsabilizzare politici e amministratori attraverso il controllo diretto dei cittadini su costi e qualità delle prestazioni.
Tutto ciò senza pregiudicare le esigenze di unità nazionale e uguaglianza dei diritti di cittadinanza, che vengono garantite riservando allo Stato poteri di coordinamento, l’esercizio delle funzioni unitarie e dei compiti concernenti il superamento dei divari territoriali e l’uguaglianza nell’esercizio dei diritti fondamentali di cittadinanza.
Peraltro il testo recentemente approvato, “al fine di tutelare l’unità giuridica o economica, nonché l’unità di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie” prevede espressamente la possibilità di “limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione nell’atto di iniziativa”, ossia di ridurre il catalogo delle funzioni da devolvere.
Le competenze e le risorse concernenti le funzioni dirette a realizzare i diritti fondamentali civili e sociali dei cittadini potranno essere trasferite alle Regioni soltanto dopo che si sarà proceduto a stabilire i livelli essenziali delle prestazioni, ossia gli standard qualitativi e quantitativi di ogni prestazione ed attività che dovranno essere garantiti in modo uniforme, a parità di condizioni, sull’intero territorio nazionale, ed i relativi costi.
In questo modo, indipendentemente dal luogo di residenza, ogni cittadino riceverà un livello qualitativo e quantitativo standard di determinate prestazioni pubbliche finanziato dalla fiscalità nazionale, mentre le regioni più ricche potranno aumentare la quantità e qualità dei servizi a carico dei propri bilanci.
Al riguardo, peraltro, l’ultima versione del testo ha notevolmente implementato l’elenco delle cc.dd. funzioni LEP, aggiungendo a sanità, istruzione e assistenza organizzazione della giustizia di pace; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; tutela e sicurezza del lavoro; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; alimentazione; ordinamento sportivo; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; p) produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; q) valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali.
Ciò comporta un significativo incremento della base standard di prestazioni essenziali che saranno fornite ad ogni collettività territoriale del Paese.
L’uniformità nella erogazione delle prestazioni fondamentali dovrà, peraltro, essere mantenuta nel tempo, e a tal fine si prevedono specifiche procedure di monitoraggio e di adattamento delle prestazioni pubbliche e delle risorse alle specifiche esigenze sopravvenute.
Le funzioni “non fondamentali” trasferite alle regioni (rapporti internazionali e con l’UE, commercio con l’estero, casse di risparmio ecc) verranno finanziate attraverso una quota aggiuntiva del prelievo tributario prodotto da cittadini e imprese di quei territori.
Il gettito dei tributi statali riscosso in ogni Regione, infatti, viene destinato in parte a finanziare i servizi e le prestazioni pubbliche forniti alle collettività territoriali che hanno prodotto quel gettito, ed in parte a finanziare le funzioni pubbliche indivisibili (difesa, sicurezza pubblica, giustizia ecc) ed a garantire la solidarietà nazionale, ossia ad integrare le entrate tributarie delle regioni più povere.
In seguito alla differenziazione aumenterà la quota di gettito destinata alle collettività territoriali. Tuttavia le risorse che verranno trasferite alle Regioni differenziate per finanziare le nuove competenze non potranno comportare aumenti di spesa pubblica (pagati dalla collettività nazionale), né essere sottratte alle altre regioni, e non potranno ridurre i finanziamenti destinati a rimuovere gli squilibri socio economici ed infrastrutturali tra le aree del Paese, e a garantire lo sviluppo economico e l’effettivo esercizio dei diritti dei cittadini dei territori più svantaggiati.
Le funzioni verranno attribuite sulla base di una negoziazione tra il Governo e ciascuna Regione, ed il testo non prevede specifici requisiti o presupposti per l’attribuzione alle regioni delle competenze e delle risorse aggiuntive, come maggiore efficienza ed economicità della gestione dei servizi e delle prestazioni pubbliche.
Di conseguenza questo genere di valutazioni resta rimesso a valutazioni politiche discrezionali. Dato che l’attribuzione ad alcune regioni di competenze attualmente svolte dallo Stato serve ad assicurare ai cittadini di quei territori prestazioni e servizi migliori senza danno per gli interessi nazionali e per i diritti dei cittadini delle altre regioni, nell’evoluzione del disegno di legge si potrebbe far carico al governo di specificare l’interesse pubblico alla cessione di determinate prestazioni alle regioni, tenendo conto delle esternalità, delle economie di scala, della capacità di gestire meglio le attività in relazione alle specifiche esigenze e vocazioni dei territori e delle comunità, e di tenere i conti in ordine.
A questo fine bisognerebbe introdurre strumenti di misurazione oggettiva dei risultati delle regioni nelle materie da trasferire, prevedere verifiche, basate su criteri predeterminati e precisare i presupposti per l’esercizio di poteri sostitutivi ed eventualmente per la “restituzione” delle funzioni allo Stato.
La chiave di volta dell’autonomia differenziata consiste nella definizione, nella quantificazione e soprattutto nella erogazione dei livelli qualitativi e quantitativi standard delle prestazioni indispensabili per garantire in tutto il territorio nazionale i diritti civili e sociali garantiti dalla Costituzione, a cui è affidata la garanzia di eguaglianza tra territori.
Il prestigioso comitato incaricato di definire i Livelli essenziali delle prestazioni ha individuato oltre 250 voci relative a tutte le funzioni trasferibili alle regioni, comprese quelle non fondamentali, in modo da garantire una maggiore omogeneità degli standard di servizi pubblici in tutto il territorio nazionale, e precisato che «una nozione di Lep “prestazionale” e obbligatoria impatta sui conti pubblici, e assume “dimensione finanziaria, di sicura rilevanza”.
Al momento, quindi, ogni giudizio sugli effetti dell’autonomia differenziata pare prematuro.
Anche perché la consistenza effettiva e l’uguaglianza dei diritti di cittadinanza dipendono in concreto dai livelli di servizio erogati da ogni singola amministrazione: le leggi e il sistema dei lep possono definire quantità e qualità delle prestazioni da erogare e stanziare le risorse necessarie, ma la realizzazione concreta dei diritti dei cittadini dipende dal modo in cui vengono gestite quelle attività dalle amministrazioni.
Al di là degli effetti finanziari diretti, tuttavia, il regionalismo differenziato impone una seria riflessione sullo stato attuale e sulle prospettive dell’autonomia regionale.
In ogni caso, la difesa dei diritti delle collettività regionali non dovrebbe esercitarsi attraverso una opposizione di principio alla differenziazione regionale, ma piuttosto attraverso la rivendicazione di misure in grado di favorire la convergenza dei servizi essenziali verso adeguati livelli standard, uniformi sul territorio nazionale.
Dario Immordino
Cgil Sicilia e Legacoop regionale lanciano un appello per costituire un “fronte compatto” per contrastare, si legge in un comunicato, le forze politiche antimeridionaliste del governo Meloni.
Sul tema il Quotidiano di Sicilia ha intervistato Alfio Mannino, segretario generale della Cgil Sicilia.
Voi fate appello alle forze sociali, al mondo dell’associazionismo, alla società civile e alle forze politiche. Ci sono delle categorie a cui vi rivolgete in modo particolare?
“No, il nostro appello non è rivolto ad una categoria specifica. Noi riteniamo che il complesso delle forze economiche, sociali, istituzionali dovrebbe essere partecipe in un processo di difesa della Sicilia e del Mezzogiorno che passa attraverso il contrasto all’autonomia differenziata, un progetto che, se portato a compimento, rischia di relegare veramente la Sicilia in una condizione di forte marginalità. Come è previsto col residuo fiscale, le realtà che reclameranno le materie avranno maggiore trattenuta economica, quindi, le regioni più forti e questo significa che dalla fiscalità regionale noi avremo meno riscorse. Ci preoccupa ad esempio anche la contrattazione regionalizzata, con salari e stipendi più bassi in Sicilia rispetto al resto del Paese e il fatto che ci saranno meno risorse in settori importanti come sanità e istruzione”.
“Riteniamo da un lato, di mettere in campo iniziative di mobilitazione lungo il passaggio parlamentare che è stato licenziato al Senato e arriverà alla Camera, ma più in generale pensiamo che bisogna iniziare ad organizzare una serie di iniziative per affrontare il passaggio referendario in maniera significativa e quindi di costituire, territorio per territorio e comune per comune, comitati a difesa della nostra carta costituzionale e di contrasto all’autonomia differenziata”.
Può farci un breve quadro delle alternative che proponete in luogo di ciò che sta portando avanti il governo Meloni?
“Considerando le grandi diseguaglianze sociali, sia di genere che di generazione ma soprattutto territoriali in cui ci troviamo in Italia, ciò di cui avremmo bisogno sono gli investimenti, sono quelle risorse che ci consentano di dare delle risposte alla grande crisi sociale e un piano per il lavoro che guardi alla Sicilia e al Mezzogiorno, ma nulla di tutto ciò viene messo in atto”.
Roberto Pelos
L’autonomia differenziata è una sfida, ma soprattutto una grande opportunità per il territorio. Per la Regione Sicilia rappresenta la possibilità di esercitare alcune funzioni concesse dallo Stato, prevedendo anche la copertura finanziaria attraverso il gettito fiscale. L’imprenditore del marmo Giovanni Leonardo Damigella, titolare della Mondial Granit, azienda di Chiaramonte Gulfi con sedi a Custonaci (Tp) e a Verona, crede nelle opportunità offerte dalla nuova normativa, approvata di recente dal Senato. La sua è una voce fuori dal coro.
«La Sicilia ha la possibilità di dimostrare le proprie possibilità e la capacità organizzativa della Regione – afferma Damigella –. I parlamentari che hanno votato la nuova legge sono degli “eroi”. i siciliani devono svegliarsi e affrontare il tema necessario di una riforma della burocrazia regionale. Oggi la burocrazia costituisce un freno per lo sviluppo dell’isola. Con l’autonomia differenziata, ogni regione e anche la nostra Sicilia avrà la necessità di rivedere i propri assetti e l’efficienza della pubblica amministrazione. Bisognerà rivedere e limitare i poteri dei burocrati per garantire l’efficienza della pubblica amministrazione. Oggi molte imprese preferiscono investire in altre regioni perché la burocrazia e i tempi lunghi dell’amministrazione siciliana impediscono lo sviluppo delle imprese. L’Emilia Romagna, il Veneto e la Lombardia sono il motore di sviluppo dell’Italia e dell’Europa. Lo sono diventate pur senza avere l’autonomia. Perché sono regioni che hanno regole e sistemi efficienti che la Sicilia non ha».
«La pubblica amministrazione deve avere regole e tempi chiari e certi, non lasciati alla libera interpretazione. Le prescrizioni che talvolta vengono imposte agli imprenditori sono da folli, a volte senza nessun nesso logico con l’attività che si deve avviare. Un imprenditore che avvia un progetto deve sapere anzitempo cosa gli viene chiesto, queste scelte non possono essere lasciati al libero arbitrio dei funzionari. Il libero arbitrio, utilizzato spesso come abuso dai burocrati, diventa in questo modo frutto di cultura mafiosa».
Damigella entra nel dettaglio e fa alcuni esempi: «Quando si presentano dei progetti al ministero dello Sviluppo Economico, si hanno tempi brevi e certi per avere l’esame e l’esito della pratica. In Sicilia per l’esito di una pratica servono 4 o 5 anni. Tutto questo è contrario all’efficienza e frena lo sviluppo dell’isola. Se tutto questo accade a causa di una burocrazia inefficiente, bisogna correre ai ripari: riuscire ad evitare lo strapotere della burocrazia che blocca lo sviluppo. La Sicilia è piena di imprenditori capaci, ma oggi le loro possibilità sono frenate. L’autonomia differenziata può essere uno stimolo e un’opportunità, un punto di svolta. Ma se si vuole garantire lo sviluppo dell’isola e abbandonare per sempre quel senso di rassegnazione che tutti noi siciliani abbiamo difronte all’inefficienza della cosa pubblica, la nostra classe politica dovrà finalmente dimostrare di poter garantire un sistema efficiente e funzionale alle imprese piuttosto che diventare ostacolo allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra».