Il castello di Leucatia apparteneva alla famiglia di origini ebraiche Mioccio
Non è consueto che una piazza abbia il nome di un romanzo, anziché di uno scrittore. Ciò accade per la piazza di Catania “I Vicerè”, intestata all’omonima opera di Federico De Roberto, che narra le vicende di una nobile famiglia catanese, di diretta discendenza della nobiltà spagnola, che aveva lungamente governato e spadroneggiato sulla Sicilia, dal 1282 sino al 1713. Il racconto ha un doppio filo conduttore: le lotte intestine in ambito familiare, condotte dal primo genito, che ad ogni costo, con inganni e sotterfugi, riuscirà a difendere i diritti che ritiene gli spettino in forza della primogenitura, ormai non più tutelata dalla legge, e quindi recuperare il patrimonio che riteneva essergli stato sottratto ingiustamente dalla arcigna madre, eccezionalmente ben disposta solo in favore del terzo genito, da lei oltremisura beneficiato con il testamento; nonché la competizione politica dei componenti più sagaci ed astuti della famiglia, che lasciandosi alle spalle, senza scrupoli, una lunga tradizione di fedeltà alla corona borbonica, giungono a conquistare, con una ascesa rapida e senza indugio, anche un scranno nel primo neonato parlamento del Regno d’Italia. Tutto ciò per continuare a comandare, nella loro terra, come avevano fatto da sempre, dalle origini del casato in nome della corona spagnola.
Accanto all’ampia ed accogliente piazza “ I Vicerè” sorge, solenne nel suo stile gotico-siciliano, il castello di Leucatia, nel cui piano più alto ha sede la Sinagoga di Catania. L’imponente edificio, la cui costruzione ha avuto inizio nel primo decennio del secolo scorso, apparteneva alla famiglia Mioccio, che, per ricordare le proprie origini ebraiche, lo ha ornato, coronandolo in prossimità dei merli, con un fasciame in cui spiccano le stelle a sei punte di David, che testimoniano, senza incertezza, l’antica origine israelitica. L’area limitrofa su cui oggi si espande la grande piazza nel romanzo del De Roberto, viene indicata con il nome del “Belvedere”, ed ha il suo perimetro delimitato da un archeggiato in pietra lavica grezza su cui, per nobilitarlo a decorazione, si aprono tre grandi portali, che evocano l’imponente architettura barocca dei più bei palazzi gentilizi della Catania del ‘700. L’archeggiato che si erge sulla circonferenza del piazzale, in scura e ruvida pietra dell’Etna, evoca alla memoria l’acquedotto che passava nelle vicinanze, fatto costruire dai monaci, che dal seicento riforniva di ottima acqua il grande monastero dei Benedettini di San Nicolò l’Arena e gran parte della città.
Monastero che, come è noto, nel romanzo “I Vicerè” viene descritto come quella infame gabbia dorata in cui venivano rinchiusi, contro la loro volontà, i figli cadetti delle famiglie nobili catanesi, per non disperderne il patrimonio. L’acqua che ancora oggi sgorga copiosa nella vicina timpa, per incuria della collettività, in epoca di grande siccità, si disperde inutilmente nel terreno, anche se deve segnalarsi che da qualche tempo la locale Università ha intrapreso studi per la valorizzazione del sito, anch’esso abbandonato, sebbene di innegabile interesse naturalistico e per l’utilizzo della preziosa risorsa idrica. A metà luglio, di questa estate torrida, sono stati consegnati alla azienda esecutrice, i lavori che consentiranno di convogliare la vena, portandola più a valle, per rigenerare quel che resta del verde del Parco Gioieni, di cui il Comune di Catania ha disposto il rinfoltimento.
Anche la Comunità Ebraica locale ha manifestato interesse per il nuovo incanalamento idrico, giacché l’eccellente qualità dell’acqua si presta all’utilizzo, per i bagni rituali, nel mikveh, che è in corso di progettazione, quale pertinenza della Sinagoga. Il castello, in lontani anni passati, nei racconti popolari, era noto perché luogo di apparizioni di spiriti inquieti. In realtà, il maniero è stato sede dell’epilogo di una infelice storia d’amore che poco ha da meno rispetto a quella, ben più nota, di Giulietta e Romeo. Nel maniero catanese il 20 aprile del 1911, rinunciò alla vita per amore Angelina Mioccio, lasciandosi cadere dal torrione del castello, ancora in corso di costruzione. Era l’epoca in cui l’uso dei matrimoni combinati era alquanto diffuso, ma Angelina, a soli diciotto anni, non ha inteso rinunciare all’amore, del tutto platonico ma ardente ed intenso, che nutriva nei confronti di un lontano cugino di modeste condizioni economiche, di nome Alfio, che per solidarietà familiare, era stato chiamato a lavorare alle dipendenze del di lei padre, ed invece sposare, secondo accordi a cui era rimasta del tutto estranea, un agiato e maturo professionista, che la famiglia, a sua insaputa, aveva individuato e le imponeva, senza se e senza ma, come marito, secondo la ferrea logica del buon partito.