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Dalla mafia alla Falange Armata, il duplice omicidio Vecchio-Rovetta resta ancora un mistero

Dalla mafia alla Falange Armata, il duplice omicidio Vecchio-Rovetta resta ancora un mistero
L’omicidio Vecchio-Rovetta

Il 31 ottobre 1990 il duplice assassinio in piena zona industriale a Catania: è lì che Alessandro Rovetta e Francesco Vecchio lavoravano. Dopo 33 anni il caso è irrisolto

“È una storia indegna di un paese civile, sono tre decenni che aspettiamo giustizia e invece abbiamo avuto soltanto delusioni”. A casa di Salvo e Pierpaolo Vecchio, la commemorazione dei defunti da 33 anni arriva in anticipo rispetto al resto del Paese. Era il 31 ottobre 1990 quando il loro padre, Francesco, veniva investito dai proiettili esplosi da due differenti armi mentre si trovava alla guida della propria auto con accanto Alessandro Rovetta. I due erano dirigente e manager della Megara, la più grande acciaieria della Sicilia, e da poco erano usciti dallo stabilimento che ha cambiato nome ma ancora oggi si trova nella zona industriale di Catania.

La terza richiesta di archiviazione

Chi e soprattutto perché abbia sparato è un mistero, uno di quelli che potrebbero non essere mai svelati se il tribunale dovesse decidere di archiviare l’indagine sul duplice delitto. “Siamo alla terza richiesta di archiviazione, così come accaduto in occasione delle prime due ci siamo opposti. Speriamo che si decida di non mettere la parola fine sul desiderio di giustizia che tanto la mia famiglia quanto quella dell’avvocato Rovetta chiedono a gran voce – dichiara al QdS Salvo Vecchio –. La speranza, però, si accompagna a una consapevolezza che in questi anni si è fatta sempre più forte: un paese in cui il 70% dei delitti di mafia rimane impunito è un paese in cui la lotta alla criminalità organizzata, al di là degli impegni di facciata, non è in cima all’agenda della politica. Ma anche la magistratura – continua il figlio di Francesco Vecchio – non si è dimostrata all’altezza del compito, incapace di avere quella marcia in più”.

Tre pentiti, otto indagati, nessuna verità

“Un commando operante con tecniche quasi militari”. Il tentativo di ricostruire ciò che accadde a Vecchio e Rovetta parte da qui e segue gli accertamenti balistici eseguiti dopo l’agguato. Purtroppo, però, ciò che è venuto dopo è una matassa che finora è risultata impossibile da dipanare. Ogni pista investigativa percorsa si è interrotta da qualche parte, portando gli inquirenti ad abbandonarla.

Di ipotesi, ne sono state fatte almeno tre e tirano in ballo i livelli più alti di Cosa nostra. In questa storia, infatti, trovano posto nomi eccellenti della mafia siciliana: da Bernardo Provenzano a Giovanni Brusca, da Nitto Santapaola ad Aldo Ercolano, fino a Luigi Ilardo, l’uomo ucciso nel ’96 poco dopo avere ufficializzato la propria volontà di collaborare con la giustizia. Guardando al contesto criminale catanese, ci si imbatte poi in una selva di nomi legati a più di un clan.

Non mancano neanche i pentiti. Sono tre i principali che hanno parlato con una sufficiente quantità di dettagli del duplice delitto: Maurizio Avola, l’ex killer della famiglia Santapaola-Ercolano tornato al centro dell’attenzione per avere fornito una ricostruzione dell’attentato di via D’Amelio rivelatasi totalmente priva di fondamento; Giuseppe Ferone, l’uomo che da collaboratore di giustizia uccise la moglie di Nitto Santapaola; e più di recente Francesco Squillaci, boss di Piano Tavola detto Martiddina.

Con i loro racconti sono state riempite decine di pagine di verbali, alcuni ripresi e integrati anche a distanza di oltre dieci anni. Per ultimo si è arrivati a una lista di indagati contenente otto nomi sul cui conto però, secondo i magistrati titolari dell’inchiesta, non si sono raccolti sufficienti elementi per sostenere l’accusa in un processo.

Le piste

L’interesse di Cosa nostra nei confronti dell’acciaieria Megara sembra un dato ormai acquisito. Sono tanti i motivi – tra cui alcuni pizzini inviati da Provenzano a Brusca e Ilardo – che portano a pensare che l’acciaieria pagava somme a titolo estorsivo a Cosa nostra, nonostante i magnati dell’acciaio Ettore Lonati e Amato Stabiumi abbiano negato questa ipotesi.

E se una situazione di tale soggezione nei confronti di Cosa nostra, unita agli investimenti miliardari che da lì a poco avrebbero interessato lo stabilimento, avrebbe rappresentato un contesto che mal si concilierebbe con un duplice delitto eccellente, bisogna chiedersi quale potrebbe essere stato, dunque, il movente.

Secondo Avola, dietro al delitto ci sarebbero state le pressioni della famiglia Ercolano interessata a inserirsi all’interno dell’acciaieria e non più soddisfatta della sola possibilità di interferire con la gestione dell’indotto, in particolar modo quello legato al settore dei trasporti. Un’altra strada, invece, porta lontano da Catania: in provincia di Palermo, dove una disputa sulla compravendita di un terreno avrebbe dato il la alla vendetta nei confronti di Rovetta. Infine, c’è una pista che ruota attorno a Francesco Vecchio: secondo Ferone, il dirigente, che alla Megara si occupava anche di gestione del personale, sarebbe entrato in rotta di collisione con due soggetti vicini al clan Sciuto e, nel tentativo di smarcarsi da un tentativo di estorsione, avrebbe fatto il nome di un soggetto appartenente a un gruppo criminale. Un tentativo smascherato, probabilmente percepito come una provocazione, e per questo punito nel sangue.

La versione di Ferone condivide alcuni tratti con quella di Squillaci: Martiddina ai magistrati ha detto che il duplice delitto non sarebbe stato una cosa interna a Cosa nostra, bensì una risposta violenta legata a una querelle insorta in merito a un terreno limitrofo all’acciaieria e a disposizione di una ditta che si occupava di manufatti metallici. A riguardo, gli investigatori – sulla scorta anche delle parole pronunciate da Ferone nel 1995 – avevano individuato i due fratelli Carmelo e Francesco Rapisarda, entrambi imprenditori nati a Tripoli, ritenuti vicini al clan Sciuto.

In passato i Rapisarda sono finiti sotto la lente delle procure, come nel caso dell’inchiesta Brotherhood sui rapporti tra mafia e massoneria. Francesco Rapisarda, ritenuto sovrano di una loggia che ha sede a Catania, in estate è stato coinvolto in un’inchiesta della Dda di Catanzaro con l’accusa di avere rapporti con la cosca ‘ndranghetista di Limbadi (Vibo Valentia). A differenza di quello del fratello Carmelo, defunto da qualche tempo, il suo nome non compare nella lista degli indagati riportata nella richiesta di archiviazione della procura etnea.

La Falange Armata

Nella misteriosa storia dell’omicidio di Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta, c’è spazio anche per la Falange Armata. Con questa sigla, a partire dall’inizio degli anni Novanta, furono rivendicati numerosi fatti di sangue, comprese le principali stragi di mafia. Chi ci fosse dietro non è mai stato chiarito del tutto: secondo Francesco Paolo Fulci – l’ex segretario generale del Cesis, ovvero l’organo che un tempo coordinava i servizi segreti italiani – tra coloro che avrebbero effettuato le telefonate di rivendicazione ci sarebbero stati membri della settima divisione del Sismi, il servizio segreto militare.

La Falange Armata rivendicò il duplice delitto della Megara il 5 novembre, meno di una settimana dopo i fatti. Si trattò della seconda volta in cui la sigla comparve sulla scena pubblica. “L’operazione è stata fatta dai nostri operai del carcere di Catania”, è il messaggio recapitato alla redazione Ansa di Torino. Il riferimento al penitenziario ha portato a pensare a un collegamento con alcuni soggetti che lavoravano alla Megara beneficiando della semilibertà e che si sarebbero scontrati con Vecchio, per via dei controlli imposti da quest’ultimo per attestare la concreta presenza degli operai all’interno dello stabilimento.

Un coinvolgimento della Falange Armata, che in precedenza aveva rivendicato soltanto l’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile all’interno del carcere milanese di Opera, sposterebbe il punto focale della vicenda su un piano in cui, inevitabilmente, non solo l’assassinio di Vecchio e Rovetta non sarebbe l’epilogo sanguinoso di una vicenda privata, come descritto da Squillaci e Ferone, ma in cui a incidere non sarebbero state soltanto le logiche proprie della criminalità organizzata.

Un maggior impegno

Nella propria opposizione alla richiesta di archiviazione, tanto i figli di Vecchio quanto i familiari di Rovetta hanno sottolineato la necessità di uno sforzo investigativo maggiore. Alcuni suggerimenti sono stati anche forniti dai rispettivi legali. “Non tutte le persone che potevano essere sentite sono state interrogate”, è il pensiero comune che arriva dalle famiglie. L’auspicio per loro è che la giudice per le indagini preliminari Marina Rizza possa fare propria la tesi e chiedere alla procura di andare avanti.