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Conflitto di interesse, cosa rischia il dipendente pubblico

Conflitto di interesse, cosa rischia il dipendente pubblico

Al centro della sentenza 14950 della Cassazione il caso di un impiegato che ha trattato la pratica della moglie. Se non si astiene in presenza di interesse privato, si configura il reato di abuso di ufficio

PALERMO – Abuso d’ufficio per il dipendente comunale che non si astiene in presenza di un interesse privato. Così si è espressa la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 14950, depositata lo scorso 4 aprile.

Al centro della vicenda il caso del responsabile dell’ufficio tecnico del comune di Ghiffa (Vb) per non essersi astenuto nella trattazione della pratica relativa al cambio di destinazione d’uso dell’immobile, avviata dalla proprietaria, ovvero la moglie. Tra l’altro, l’impiegato era designato come l’usufruttuario dell’immobile in questione.

In questo modo, il dipendente si era procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale consistito nella sanatoria di fatto dell’edificio abusivo, omettendo di adottare i provvedimenti sanzionatori disciplinati dal decreto del presidente della Repubblica numero 380/2001.

La Corte di Cassazione ha voluto puntualizzare che la contestazione cristallizzata nel capo d’imputazione è chiara nell’individuare la materialità della condotta illecita posta in essere dal prevenuto nell’aver istruito la pratica scaturita dalla comunicazione di cambio di destinazione d’uso a firma della moglie, “omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio e del proprio congiunto”, laddove la mancata adozione dei provvedimenti del caso è altrettanto chiaramente correlata all’ingiusto vantaggio patrimoniale in tal modo conseguito, appunto per effetto della loro omessa attivazione.

Il conflitto di interessi risulta talmente conclamato da rendere davvero superflua ogni annotazione in proposito. La difesa, consapevole di questo, ha spostato il fulcro dell’attenzione sulla diversa questione dell’insorgere dell’obbligo medesimo, connesso alla necessarietà o meno dell’avvio di una pratica amministrativa. Già il semplice fatto di aver avviato la pratica basterebbe a concludere il giudizio di colpevolezza.

Molteplici sono i profili di vantaggio che sarebbero ingiustamente derivati dalla pratica scorretta: si va dalla regolarizzazione della totale abusività del manufatto alla sanatoria di un edificio che difetta dei requisiti di legge per il rilascio dell’abitabilità per via dell’insufficienza delle altezze fino alla legalizzazione di un manufatto ubicato in una zona classificata ad elevato rischio idrogeologico. Si tratta di profili tutti convergenti verso l’adozione di provvedimenti sanzionatori e repressivi, per contro non adottati.

La Corte ha voluto infine stigmatizzare la palese infondatezza dell’affermazione secondo cui il concreto esercizio di tale potere sarebbe giustificato solo da evidenti difformità valutabili ex ante: ciò di cui non è spiegata la supposta base normativa, avendo peraltro la Corte di appello già opportunamente sottolineato che, “in assenza di tale potere, … non avrebbe neanche alcun senso la previsione, quale indefettibile onere del privato, della previa comunicazione con specifica indicazione degli estremi del fabbricato, della tipologia di intervento e della sussistenza della compatibilità di quest’ultimo con gli strumenti urbanistici vigenti”.
Dunque, in conclusione, la Corte di Cassazione conferma quanto già stabilito nei due precedenti gradi di giudizio e condanna il ricorrente alla pena di sei mesi di reclusione, convertita nella corrispondente sanzione pecuniaria pari a 45 mila euro di multa.