La crisi del sistema giudiziario penale potrebbe essere riassunta attraverso le cifre che il nostro Paese spende ogni anno per risarcire quei cittadini che sono stati sottoposti a ingiusta detenzione, vale a dire coloro i quali hanno trascorso un certo tempo in carcere senza che ve ne fosse alcuna ragione. C’è chi è rimasto dietro le sbarre perché è stato considerato colpevole, mentre era innocente, c’è chi vi è finito per un caso di omonimia, chi perché vittima di un clamoroso errore o per una deposizione estorta sotto ricatto. Insomma, i casi di ingiusta detenzione hanno origini diverse, ma hanno un elemento in comune: la tragedia umana, economica, sociale, emotiva, familiare, lavorativa (e molto altro ancora) che essi determinano nella vita di una persona, che dopo un arresto, qualunque ne sia la ragione, resta segnata per sempre.
Il tema della responsabilità civile dei magistrati
Tuttavia c’è un altro aspetto della vicenda che, oltre a colpire chi viene privato ingiustamente della propria libertà, colpisce tutti noi, anche se si tende a non parlarne, dato che esso chiama in causa il tema della responsabilità civile dei magistrati. Si tratta di un tabù sul quale il popolo italiano si è pronunziato con chiarezza attraverso un apposito referendum, ma che è stato tradito, in quanto il suo esito è stato del tutto ignorato da un’ampia e trasversale classe politica affetta da quella strana malattia che si chiama “coda di paglia”. La questione alla quale qui si intende fare riferimento è il costo per lo Stato, dunque per noi contribuenti, della ingiusta detenzione, una cifra davvero sconcertante: 220,5 milioni negli ultimi sette anni, vale a dire una media di 31,5 milioni l’anno, che significano oltre 80 mila euro al giorno. Con simili somme si sarebbero potuti costruire circa 40 asili nido, 80 campi di calcio, 50 palestre, 15 scuole superiori e una ventina di reparti ospedalieri di alta specializzazione. Invece, a causa degli errori giudiziari, ma anche, perché non dirlo, di un volgare e superficiale giustizialismo securitario o presunto tale, si è raggiunto il drammatico risultato di privare immotivatamente della propria libertà degli innocenti, e di privare di importanti infrastrutture altri innocenti, lasciando impuniti i veri colpevoli di un simile scempio civile. Si tratta di quei magistrati che hanno commesso gli errori che hanno prodotto l’ingiusta detenzione ma che non solo non pagheranno mai per quanto hanno fatto, ma continueranno ad avanzare in carriera come se nulla fosse, esattamente come accadde ai magistrati che mandarono in galera Enzo Tortora.
Chi ha diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione
Giusto per ricordare, l’indennizzo per ingiusta detenzione è previsto dagli artt. 314 e 315 Cpp e consiste nel pagamento di una somma di denaro, che non può eccedere l’importo di 516.456 euro, a titolo di riparazione determinata dal giudice in via equitativa. Per essere un po’ più precisi, ha diritto ad accedere all’istituto della riparazione per ingiusta detenzione chi, essendo stato sottoposto a custodia cautelare, sia stato successivamente prosciolto, con sentenza irrevocabile, perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, se non ha concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. Ha diritto ad accedere all’istituto della riparazione anche chi è stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, è stato prosciolto per qualsiasi causa quando, con decisione irrevocabile, risulti accertato che il provvedimento di custodia cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 del Codice di procedura penale, ma ne ha diritto pure chi è stato condannato e nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare quando, con decisione irrevocabile, risulti accertato che il provvedimento di custodia cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 del codice di procedura penale. Inoltre, ha diritto ad accedere all’istituto della riparazione: chi è stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, a suo favore, sia stato pronunciato un provvedimento di archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere; chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per custodia cautelare; chi è stato prosciolto per qualsiasi causa o il condannato che, nel corso del processo, sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insussistenti le condizioni per la convalida. Nel caso di decesso del cittadino che sia stato ingiustamente privato della sua libertà, la legittimazione a domandare la riparazione spetta a: il coniuge, i discendenti e gli ascendenti, i fratelli e le sorelle, gli affini entro il 1° grado, le persone legate da vincoli di adozione con quella deceduta. L’istanza per accedere all’istituto della riparazione può essere proposta entro due anni dal passaggio in giudicato della sentenza dalla quale promana il diritto o, in caso di archiviazione, dalla notifica del decreto.
Concludiamo con qualche altra cifra. Il tribunale che ha risarcito di più negli ultimi sette anni è stato quello di Reggio Calabria, con 39,292 milioni di euro. Al secondo posto si è classificato quello di Catanzaro, con 28,949 milioni di euro, seguito da Palermo, con 24,451 milioni. In questa triste graduatoria si trovano più indietro Roma, con 22,038 milioni, Napoli, con 14,651 milioni, Catania, con 13,433 milioni e Bari, con 10,216 milioni. Milano, giusto per fare una sorta di paragone, si colloca nella parte bassa di questa vergognosa classifica con 7,432 milioni.

