Cronaca di una pandemia che non ha insegnato nulla - QdS

Cronaca di una pandemia che non ha insegnato nulla

Cronaca di una pandemia che non ha insegnato nulla

venerdì 26 Marzo 2021

Nonostante sia passato oltre un anno dall’inizio dell’emergenza sanitaria, le istituzioni non sono state in grado di predisporre in tempo una macchina organizzativa efficiente per le vaccinazioni

È già passato poco più di un anno da quando cominciavamo a sentir parlare in televisione di una strana polmonite che colpiva, inizialmente, i lavoratori di un mercato del pesce di Wuhan, in Cina. La maggior parte dei telespettatori italiani non aveva mai nemmeno sentito nominare Wuhan e non immaginavano che si trattasse di una modernissima metropoli industriale con ben 6,5 milioni di abitanti. All’inizio, quindi, la notizia venne liquidata con la solita alzata di spalle, ma nei giorni successivi cominciò ad essere seguita con crescente attenzione, che crebbe quando, a fine dicembre 2019, gli scienziati cinesi riuscirono ad isolare l’agente patogeno responsabile di quelle strane polmoniti, spesso mortali. E siccome si parlava di nuovo Coronavirus e di Sars – Cov2 qualcuno drizzò le orecchie, perché la Sars gli italiani l’avevano già conosciuta e ne avevano avuto paura, ma poi era scomparsa così come era arrivata e la cosa era finita lì.

A gennaio, però, i tiggì nazionali cominciarono a trasmettere immagini sempre più forti, come quella di un anziano cittadino cinese morto per strada e lasciato per ore sul marciapiede per paura del contagio, come quelle di polizia ed esercito che iniziavano a confinare con la forza i terrorizzati cittadini cinesi nelle proprie abitazioni. In quel periodo, la percezione degli italiani era quella del solito distacco di chi, tra un boccone e l’altro davanti alla tivù, è da troppo tempo abituato a guardare le scene di un bambino morto su una spiaggia nel tentativo di sfuggire insieme alla sua famiglia alla miseria e alla morte del suo Paese di origine o le immagini dei volti di esseri umani che lottano con tutte le proprie forze per restare a galla in un mare nero come la pece ma che troppo spesso spariscono per sempre sotto il pelo dell’acqua.

Wuhan continuava a essere un posto misterioso così come quel virus sconosciuto, il Covid-19 era lontano dall’Italia e non faceva impressione nemmeno la notizia che il governo cinese avesse appena chiuso una Provincia, quella dell’Hubei di cui Wuhan è capoluogo, confinandovi dentro 58 milioni di cittadini. In pratica, come chiudere a chiave l’Italia intera. Inimmaginabile!

Ancora a febbraio 2020, il nuovo Coronavirus continuava ad essere distante anni luce dalle nostre menti e dalla routine quotidiana, fatta di casa lavoro, di happy hour e teatro, di cinema e pub, di gite fuori porta e cene con gli amici, di pranzi della festa ed abbracci e baci con i familiari, di calcetto del giovedì sera e partite allo stadio alla domenica. Poi, arrivò il 23 febbraio 2020 e gli italiani scoprirono Codogno, Comune della Provincia di Lodi, un piccolo centro di 15.000 anime dell’hinterland lombardo destinato a diventare il simbolo della pandemia che di là a poche settimane sarebbe esplosa in tutta la sua ferocia. Cominciammo a parlare di Mattia, il paziente uno, che si conobbe per nome e per cognome, di cui si seppe tutto, con chi aveva viaggiato, con chi aveva cenato nei giorni precedenti, con chi giocava a calcetto. Informazioni dettagliatissime che ci illusero che quel tracciamento capillare del contagio avrebbe bloccato tutto sul nascere. Ma non era così, la stalla era già andata a fuoco e i buoi erano scappati da un pezzo, però nessuno se ne era accorto. La stessa Oms tardò non poco a dichiarare ufficialmente la pandemia.

Dopo Codogno, lo schermo TV ad alta definizione non fu più in grado di isolarci dalle brutture del mondo, perdendo quella funzione di scudo protettivo che ci garantisce di vivere il mondo globalizzato e le sue notizie in tempo reale, quasi una crema solare che filtra ciò che arriva da fuori prima che bruci sulla nostra pelle. Dopo Codogno, cominciammo tutti a fare parte del più grande spettacolo del Mondo, e lo spettacolo ebbe inizio, con telegiornali e talk show invasi da epidemiologi e infettivologi, da virologi e microbiologi, da esperti di statistica e di pandemie, moltiplicatisi come virus da ogni angolo del Paese, sempre pronti ad occupare gli spazi dei palinsesti televisivi di ogni ordine e grado, al punto da farci domandare se costoro avessero anche il tempo per lavorare, sempre pronti a dichiarare tutto e il suo esatto contrario più rapidamente del battere di ali del colibrì.

Fin dai primi giorni, gli italiani cominciarono a familiarizzare con virus e batteri e non era raro assistere, sconcertati, a discussioni infervorate tra casalinghe al mercato della frutta, intente a dissertare su RNA e proteina “spaic”, su valori di saturazione di ossigeno nel sangue e sui sintomi da prendere in considerazione e quelli da tralasciare. Mentre il barbiere ci radeva con scrupolo e attenzione, ascoltavamo i tifosi di Inter e Milan che preferivano adesso accapigliarsi per dare ragione a Burioni piuttosto che a Pregliasco.

I più disinvolti e sicuri di sé, guardavano gli altri con sufficienza, asserendo con sicumera che non c’era da preoccuparsi, che era poco più che un’influenza, del resto l’aveva detto il giorno prima anche la virologa Gismondo, se non ne capisce lei, allora stiamo freschi. E aggiungevano: “d’altra parte, se ci fosse veramente pericolo, Salvini andrebbe in giro con la mascherina, Sgarbi non avrebbe dichiarato alla Camera che il Covid non esiste e Zingaretti non andrebbe a farsi uno Spritz ai Navigli. E arrivarono i morti di Bergamo che non si sapeva più dove mettere e i contagi che dilagavano in Lombardia ma anche nel resto del Nord Italia. E allora arrivarono, a raffica, i dippìcciémme di Conte, e alla fine arrivò il lockdown anche in Italia. Tutti chiusi a casa e basta, zitti e buoni. Si usciva solo con l’autocertificazione, sperando di avere sottomano l’ultimo modello. E Pasqua e Pasquetta senza gite fuori porta, senza fave e pecorino, senza le teglie di pasta incasciata, senza la cassata. Niente picnic sui prati, niente altalena di fortuna montata tra gli alberi, niente happening in spiaggia. Con l’eccezione di qualche trasgressore che arrostiva le puntine di maiale e le salsicce sui tetti di Palermo insieme a un nugolo di deficienti.

Dopo il lunghissimo estenuante lockdown, la curva dei contagi scese finalmente in picchiata nel nostro Paese e qui si fece l’errore più madornale, quello di pensare che fosse tutto finito, tanto da far balenare nella mente del ministro Speranza di dare alle stampe un libro in ricordo della pandemia, frettolosamente ritirato nella speranza che sia andato al macero. E via con le discoteche estive aperte, via con i ristoranti e i bar aperti fino a tarda sera, via con le irrinunciabili vacanze sia in Italia che all’estero, via con le spiagge affollate di bagnanti senza mascherina al grido di uncinnè coviddi lanciato dalla “signora di Mondello”, ma rilanciato mediaticamente in ogni angolo del suolo italico come il Verbo della nuova Era post pandemica.

L’autunno caldo preconizzato da alcuni antipatici virologi, menagrami di professione, arrivò più puntale del Freccia Rossa, e dal lockdown siamo passati a colorare le Regioni italiane in base al rischio del contagio e alla tenuta del sistema sanitario, in particolare delle terapie intensive. Il resto è storia dei nostri giorni con le vaccinazioni che vanno a rilento nonostante siano da considerare l’unico mezzo per uscire dall’incubo.

Dopo oltre un anno si può dunque delineare un primo bilancio sulla gestione della pandemia. All’arrivo del Coronavirus il nostro SSN si è trovato profondamente impreparato a fronteggiare un evento pandemico, perfino nelle cosiddette Regioni virtuose che negli ultimi decenni avevano puntato tutto sulla sanità privata di eccellenza, rivelatasi inadatta di fronte ad un evento come quello del Covid. Abbiamo scoperto che il piano pandemico nazionale era datato e non aggiornato e, soprattutto, mai applicato perché si riteneva che una pandemia fosse un evento assai difficile da verificarsi. E infatti lo è, ed è proprio questo il motivo per cui si predispone un piano anti-pandemia.

La politica ha scoperto, grazie al Covid, che tagliare sulla sanità è sbagliato e dopo questa sensazionale scoperta, seconda solo a quella dell’acqua calda, l’auspicio è che si faccia tesoro degli errori del passato per evitare di ripeterli. Certo l’andamento della campagna vaccinale non depone a favore di tale ipotesi. Già a novembre si parlava del traguardo incredibilmente vicino del vaccino anti Covid e ci si sarebbe quindi aspettati una corsa a perdifiato per predisporre in largo anticipo la macchina organizzativa di una campagna vaccinale senza precedenti nella storia del nostro Paese e di tutto il Pianeta.

E invece si è perso del tempo prezioso in spot televisivi e in fantasmagorici progetti “petalosi” quando l’unica cosa da fare sarebbe stata quella di riorganizzare con immediatezza le strutture esistenti e di reclutare in anticipo il personale da dedicare alle vaccinazioni. Si va avanti ancora adesso con ripensamenti anche su base regionale, sulle fasce di età, sulle categorie fragili, su quelle professionali, su chi deve somministrare i vaccini e dove, finendo per fare un passo avanti e due passi indietro. E alla fine ci voleva il caso Astra-Zeneca, la classica ciliegina sulla torta, ancora non del tutto chiarito, quantomeno a livello di comunicazione istituzionale. Forse sarebbe bastato dire a chiare lettere che ogni vaccino, ma anche ogni farmaco che usiamo nella quotidianità può avere effetti collaterali, reazioni avverse più o meno gravi.

Basterebbe leggere il bugiardino di una qualsiasi scatola di un prodotto farmaceutico che ogni italiano ha in casa nell’armadietto dei medicinali per scoprire che i farmaci di uso più comune hanno un’incidenza assai più elevata rispetto ai vaccini. Sarebbe anche bastato spiegare semplicemente che i casi, purtroppo anche gravi e in pochissimi casi mortali legati (forse) al vaccino rappresentano una percentuale infinitesimale rispetto al numero di somministrazioni totali e che il bilancio rischi/benefici è incomparabilmente a favore dei secondi, per evitare perfino la sospensione cautelare di Astra Zeneca per fortuna oggi ripreso a pieno ritmo.

Al di là delle querelle sui vaccini, sulle case farmaceutiche che non rispettano gli impegni assunti con la Comunità Europea, i ritardi accumulati finora, pur non essendo poca cosa, devono essere di stimolo per recuperare il tempo perduto, per dare una decisa sterzata alla campagna vaccinale imprimendo quel cambio di passo indispensabile per poter vedere l’alba alla fine della notte, a condizione che la macchina organizzativa venga rodata al più presto.

Diamoci una mossa, vacciniamo il maggior numero di persone e nel più breve tempo possibile e, forse, nel giro di pochi mesi potremo tornare alla vita normale. L’ultima raccomandazione è quella di non dimenticare troppo presto, di imparare realmente dagli errori del passato e di custodire queto nostro benedetto sistema sanitario pubblico come un vero e proprio tesoro.

Giuseppe Bonsignore
Cimo Sicilia

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