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Da Gaza al Cannizzaro, la storia di M. sognando un futuro senza più bombe

Da Gaza al Cannizzaro, la storia di M. sognando un futuro senza più bombe
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La bambina di dieci anni è ricoverata nell’ospedale catanese grazie all’intervento dell’Oms. L’orrore della guerra, una famiglia distrutta e la speranza di ricominciare una nuova vita

In fuga dalle bombe di Gaza per cercare cure e riparo all’Ospedale Cannizzaro di Catania. È la storia di M., la bambina palestinese di 10 anni vittima, insieme a tutta la sua famiglia, del bombardamento che lo scorso 25 marzo i militari israeliani hanno condotto sul campo profughi di Rafah, nel sud della Striscia.

Era giornata di Ramadan. Pieno pomeriggio. In quel momento, la vita della famiglia si è spezzata in mille frammenti, come le lamiere contorte del campo profughi ridotto in macerie. Centinaia le vittime di quel bombardamento voluto da Israele in una delle escalation dell’Idf, durante giorni di intensa contrattazione diplomatica per il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas nel sottosuolo di Gaza.

A perdere la vita, anche il papà della piccola e la sorella maggiore di 19 anni. Il resto della famiglia è vivo per miracolo: quel giorno erano andati in un altro campo profughi a cercare dei parenti. Il corpo della figlia maggiore — racconta in arabo la madre, con la voce rotta dal pianto — “non era più un corpo”. “La testa da una parte, il corpo dall’altra. Non si può spiegare il dolore che si prova”.

Riusciamo a raggiungerla grazie a Valentina Spata, presidente dell’Osservatorio internazionale per i diritti umani, e a Fethia Bouhajeb, mediatrice e referente per il mondo arabo della stessa organizzazione. Hanno chiamato la donna per esprimerle solidarietà, vicinanza e sostegno. Un gesto umano, prima ancora che istituzionale. Oggi c’è una vita da tentare di continuare a vivere; da ricostruire. Per i suoi figli. E soprattutto per la piccola M., sopravvissuta a quella mattanza del campo profughi e ricoverata all’Ospedale Cannizzaro di Catania insieme alla sorella adolescente. La mamma e il fratello poco più che maggiorenne si trovano con loro a Catania, in carico alla Croce Rossa italiana.

La guerra li ha sbattuti da un rifugio all’altro. Prima vivevano a Gaza City. Poi, con l’inizio del conflitto, l’appartamento è diventato un bersaglio per i militari israeliani. Nessun posto era sicuro. Solo fuga. Fuga continua. E infine Rafah. Un altro campo. Un’altra trappola. Dopo il bombardamento, M. e sua sorella più grande sono state ricoverate d’urgenza al Nasser Medical Hospital. Lì, ”tra l’odore acre del sangue e del disinfettante, hanno cominciato a lottare”, racconta la mamma. Una lotta impari, contro il tempo, contro le infezioni, contro le ferite. Poi, l’intervento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il trasferimento in Italia.

Decine i bambini palestinesi che l’Italia sta accogliendo

Sono decine i bambini palestinesi che l’Italia sta accogliendo nelle proprie strutture mediche insieme alle famiglie, o a quel che ne rimane. Anche di loro ha parlato la premier Giorgia Meloni, alla Camera, durante l’intervento per fare il punto della situazione sull’escalation in Medio Oriente e il bombardamento americano sull’Iran. M. non sa se potrà ancora usare le mani o camminare. Ha già subito svariati interventi chirurgici. Non sa quanti. Non lo sa più neanche sua madre. “Ho il terrore di perderla”, dice la madre, seduta accanto al letto della figlia. Gli occhi sono vuoti, lo sguardo fisso, prosciugato dal dolore. Prima di entrare in sala operatoria M. sussurrava: “Ho paura. Ho paura di perdere le gambe e le mani”.

La sorella adolescente ha ferite meno gravi, ma anche lei ha subito operazioni alle gambe. E poi c’è il fratello maggiore. È fisicamente illeso, ma porta in faccia la stessa espressione che ha sua madre: un volto che non ha più spazio per la paura, solo per la sopravvivenza. Sono vivi, ma la loro anima risiede in questo momento altrove.

Nel pomeriggio di martedì 24 giugno, la madre della bambina ha ricevuto una telefonata. Dall’altro capo della linea, Valentina Spata e Fethia Bouhajeb. La donna non riusciva a parlare. Ogni parola era una scheggia da estrarre, ogni ricordo una ferita che non si rimargina. Non era solo un racconto: era la cronaca viva di un massacro. “Raccontare quanto accaduto è una ferita aperta che continua a sanguinare”, spiega.

Il personale del Cannizzaro ha accolto i bambini con una professionalità che la donna definisce “straordinaria e umana”. L’Osservatorio Internazionale per i Diritti Umani ha promesso supporto psicologico, legale e assistenziale. La prossima settimana andranno in visita dalla famiglia in ospedale.

Non si sa nemmeno se M. potrà tornare a camminare

Non c’è ancora un orizzonte definito. Non si sa quanto dureranno le cure. Non si sa nemmeno se M. potrà tornare a camminare. Ma c’è un presente. Un letto d’ospedale, delle mani che la curano, degli occhi che la guardano non come una vittima, ma come una bambina da proteggere.

La storia della piccola non è un’eccezione. Secondo dati Unicef diffusi lo scorso mese, sono oltre 50 mila i bambini uccisi o rimasti feriti a Gaza sotto i colpi delle bombe israeliane. Il suo corpo non racconta soltanto la storia di una sopravvissuta, ma è anche la cronaca di un crimine che chiede ancora risposte. E giustizia. Nel frattempo, continuerà a lottare. Silenziosa, fragile, ostinata. Come fanno i bambini che sopravvivono a ciò che nessun bambino dovrebbe vivere.