Davigo da accusatore ad accusato - QdS

Davigo da accusatore ad accusato

Davigo da accusatore ad accusato

Salvo Fleres  |
mercoledì 28 Giugno 2023

Sono un convinto garantista e penso che una persona accusata di un qualsiasi delitto diventi colpevole soltanto dopo una sentenza definitiva

Vi confesso che la tentazione di sperare che Piercamillo Davigo, uno dei magistrati di “Mani pulite”, venisse giudicato secondo le sue stesse regole è stata, in me, molto forte.

Tuttavia sono un convinto garantista e penso che una persona accusata di un qualsiasi delitto diventi colpevole, almeno sul piano giudiziario, soltanto dopo una sentenza definitiva. Sono garantista sempre e comunque, anche nei confronti di chi si è macchiato di colpe ben più gravi di quelle per le quali ha subito una condanna in primo grado, a un anno e tre mesi, come è accaduto al dottor Davigo, protagonista di un sistema che implode. Davigo, ovviamente, ha fatto sapere che farà appello, dunque, fino all’emissione di una sentenza di cassazione sarà un presunto innocente. Pensate: lui era uno che, sfiorando l’onniscienza, teorizzava, una sorta di presunzione di colpevolezza sin dall’emissione di un avviso di garanzia o magari senza neanche quello, come accade a chi finisce sui giornali per una intercettazione “dal sen sfuggita”, senza aver commesso niente di niente. “Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti”, diceva infatti Davigo quando, insieme agli altri componenti del pool di Milano, sfilava davanti ad un nugolo di giornalisti genuflessi che attendevano la quotidiana “fuga di notizie”, vale a dire la costante “violazione ufficiale” del segreto istruttorio, per scrivere il loro pezzo. L’aberrante citazione incostituzionale e colpevolmente impunita di Davigo ha rappresentato la frase simbolo del giustizialismo dilagante in Italia, dove da anni basta un’indagine per essere messo alla gogna, senza pietà, ed essere giudicati colpevoli dal tribunale dei media, che non ha né appello, né cassazione. Come appena detto, quella in questione è una frase aberrante, che tradisce lo spirito della stessa Costituzione, che all’art. 27, co. 2 afferma, in maniera inequivocabile, che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Una frase che diventa ancora più impressionante se si pensa che è stata pronunciata da un magistrato, cioè da chi, “nel nome della legge”, decide sull’innocenza o sulla colpevolezza di una persona.

Anzi, nel caso specifico, non da un giudice qualunque, ma da uno che è stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura, cioè il massimo organismo che si occupa, tra l’altro, di organizzazione giudiziaria.

Ebbene, il giorno in cui fu pronunziata quella frase rappresentò, certamente, uno dei momenti più bassi per la giustizia e per la democrazia italiana, che però, oggi, può riscattarsi, affermando, in perfetta linea con il dettato costituzionale, l’esatto contrario, anche nei confronti dell’ inflessibile Piercamillo Davigo. Anche nei suoi confronti, infatti, nonostante, d’istinto, verrebbe voglia di fare un’eccezione, mi sento convintamente di sostenere che tutti gli italiani sono innocenti fino all’emissione di una sentenza definitiva. Sì, pure Davigo! Una cosa, però, desidero ricordarla, in memoria delle svariate vittime di quel sistema, che venne ribattezzato giornalisticamente con il nome di “rito ambrosiano”, per via della sua origine, legata alla Procura della Repubblica di Milano. Quel rito ha provocato enormi sofferenze a centinaia, forse migliaia, di innocenti sbattuti in prigione senza alcuna colpa ed alle loro rispettive famiglie. Quel rito ha utilizzato la carcerazione e le carceri non come modo e luogo di esecuzione di una sentenza, ma come strumento di tortura, grazie al quale estorcere, come ai tempi della Santa Inquisizione, non la verità, ma la versione che gli veniva richiesta dai teoremi dominanti, anche se con la verità non aveva nulla a che vedere. Quel rito ha provocato la morte per suicidio, per cancro o per crepacuore di diverse persone senza che nessuno, per simili atrocità, abbia mai pagato né con un centesimo, né con un giorno di galera, né con una sanzione professionale.

Ebbene, la condanna per quei fatti dovrebbe andare ben oltre quella prevista per la “rivelazione del segreto d’ufficio”, che magari, nel caso specifico, non si sarà neppure verificata. Confesso che affermo questo con dispiacere, soprattutto verso i giornalisti, prigionieri delle loro fonti, perché la “fuga di notizie”, vale a dire proprio la “rivelazione del segreto d’Ufficio”, era ed è un metodo di indagine per nulla occasionale, anzi, costantemente ed arbitrariamente praticato in più di una Procura italiana, proprio grazie ad un certo tipo di informazione. Un metodo di indagine per il quale, però, non solo nessuno paga, ma qualcuno diventa persino un protagonista, in attesa di fare il salto dal mondo della giustizia al mondo della politica. Un modus operandi che, grazie al “rito ambrosiano” ed alla costante ed impunita violazione costituzionale, per oltre trent’anni, senza con ciò voler difendere né i ladri veri, né altri delinquenti, ha tentato di scardinare le regole democratiche e civili del nostro Paese. Tutto ciò premesso, rispettare la Costituzione e tutte le vittime che hanno sacrificato la loro vita per conquistarla, significa considerare Davigo innocente fino al terzo grado di giudizio, anche se, nella coscienza di molti come lui, dovesse risultare solo un “colpevole che l’ha fatta franca”.

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