Diversi sono i nomi delle inchieste la cui denominazione potrebbe essere un cattivo esempio su come denominare un’operazione: primo errore tra tutti, è quello di contenere indicazioni che possano portare i cittadini a farsi un’idea preconcetta sugli indagati.
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Come ha affermato il sottosegretario Andrea Delmastro, ieri nell’Aula della Camera, a una domanda del deputato di Azione, Enrico Costa: “la deprecabile prassi di assegnare denominazioni alle inchieste” e valutare di volta in volta che questi siano “compatibili con il principio di presunzione d’innocenza”.
Operazione Cattivo Tenente
Tra i nomi citati, troviamo “Il riciclaggio è servito“, un’operazione del giugno 2020 della polizia di Milano su un giro di autoricambi ritenuto provento dell’attività di riciclaggio di un autodemolitore brianzolo. O ancora l’operazione “Caput silente” dell’aprile 2021 della squadra mobile di Enna contro la presunta riorganizzazione di un clan mafioso legata a un boss che, essendo in carcere, avrebbe dato indicazioni in maniera silente appunto, senza parlare durante i colloqui, ma passando dei “pizzini” con scritti gli ordini.
Una delle più eclatanti è l’operazione Cattivo Tenente, eseguita nel febbraio del 2020 dalla squadra mobile della questura e del commissariato di Nesima. Anche se avvenuta prima dell’entrata in vigore della legge Cartabia, è comunque considerata un esempio cattivo della denominazione delle operazioni.
L’inchiesta, infatti, non parla di un investigatore corrotto, come il protagonista del film del 1992 di Abel Ferrara a cui si ispira la denominazione, ma del capo di un’associazione per delinquere che trafficava stupefacenti e gestiva una fiorente piazza di spaccio di marijuana nel rione di San Giovanni Galermo a Catania.
Il “Cattivo Tenente” è, infatti, il trentenne Orazio Tenente che, per la sua attività illegale di spaccio, si avvaleva dell’aiuto del fratello Luigi, di 36 anni. Il collegamento del nome dell’operazione al loro cognome era troppo diretto per essere proposto all’opinione pubblica sulla stampa. Sulla questione poco influisce il fatto che i due fratelli stiano scontando una condanna definitiva: dodici anni e otto mesi per Orazio e sei anni e quattro mesi per Luigi.

