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Epatite C, in Sicilia con il lockodwn brusco stop alle diagnosi

redazione

Epatite C, in Sicilia con il lockodwn brusco stop alle diagnosi

lunedì 28 Settembre 2020

Dal 2015 nell'Isola curati diciassettemila pazienti. Il Progetto Moon di Abbvie, infettivologi, epatologi e internisti a confronto su strategie per far emergere il “sommerso”. Antonio Craxì (Unipa), “I ritardi nelle cure causeranno settemila morti in Italia”

Sono 213.052, secondo i dati Aifa aggiornati al 21 settembre, i pazienti affetti dal virus dell’Epatite C “avviati” al trattamento. Un numero importante, ma che stride se confrontato con i 193.815 trattamenti avviati al 7 ottobre 2019. In Sicilia (8,2% della popolazione Italiana) esiste una Rete di raccolta delle informazioni sui pazienti con epatite C trattati che consente di disporre in tempo reale dei risultati di trattamento. Nella Regione, dal 2015 ad oggi, sono stati curati oltre 17 mila pazienti, con percentuali attuali di efficacia delle cure che superano il 97%. Si è già osservata una riduzione di oltre il 50% della mortalità per cirrosi da Hcv.

Il basso incremento di poco meno di 20 mila unità in un anno a livello nazionale, però, evidenzia il rallentamento provocato dalla pandemia, che ha messo in discussione l’obiettivo di eliminazione dell’Epatite C entro il 2030 fissato dall’Oms: un risultato forse ancora possibile, soprattutto grazie all’innovazione garantita dai nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (Daa), che permettono di eradicare il virus in maniera definitiva, in tempi rapidi e senza effetti collaterali. Ancora prima dei trattamenti, devono essere realizzati gli screening, fondamentali per scoprire il “sommerso” di coloro che non sanno di aver contratto il virus, che si stima tra i 200 e i 300 mila soggetti. Questi temi sono al centro del progetto Moon di Abbvie: una serie di webinar in questi mesi autunnali per mettere a confronto infettivologi, epatologi ed internisti, affinché facciano rete per trovare efficaci strategie.

L’infezione da Hcv può provocare complicanze anche fatali come la cirrosi e il tumore epatico. In Italia vi sono almeno 200 mila pazienti con cirrosi epatica, dovuta nel 50% dei casi proprio all’Hcv (il resto 20% Alcool, 20% Nafld, 10% Hbv). Ne muoiono almeno 20mila per anno, di cui la metà per lo sviluppo di un carcinoma epatocellulare che si sovrappone alla cirrosi. “Il trapianto epatico è una risorsa salvavita per questi pazienti se in fase avanzata, ma è applicabile, per età o per altre comorbidità e in ogni caso per disponibilità di organi, per 1 paziente ogni 20 che muoiono di cirrosi” ha spiegato Antonio Craxì, docente ordinario di Gastroenterologia presso l’Università degli Studi di Palermo. “Le terapie antivirali stanno significativamente riducendo la mortalità per Hcv e Hbv, anche se non cancellano il rischio di cancro. I numeri totali della cirrosi rimangono immutati perché aumenta la mortalità da Nafld. Lo screening per Hcv, finanziato con 71,5 milioni – ha spiegato – quest’anno dovrebbe consentire il completamento dei programmi di eradicazione della patologia. La pandemia ha tuttavia rallentato in maniera assai significativa l’avvio del programma e si calcola che un ritardo di un anno nella cura per l’epatite C peserà fra 5 anni in aumento di circa 7 mila morti per cirrosi da Hcv, solo per l’Italia”.

Il rischio che scaturisce dall’epatite C non è esclusivamente epatologico (con possibile evoluzione da epatite a cirrosi), ma si estrinseca anche a livello sistemico. “L’eradicazione del virus permette in molti casi la cura non solo della malattia epatica ma ne impedisce la sua progressione anche nell’ambito extraepatico – ha sottolineato Erica Villa, docente ordinario di Gastroenterologia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia – Questa nuova e più ampia visione dell’infezione ha portato ad una stretta collaborazione interdisciplinare con lo scopo di individuare e trattare soggetti Hcv positivi esclusi dal trattamento antivirale fino all’avvento dei Daa. Eradicare l’infezione equivale a ridurre a livello globale il rischio di mortalità e morbidità da cause epatiche ed extraepatiche”.

Tra le strategie avviate per favorire l’emersione del sommerso, una valida opportunità nasce proprio dalla pandemia: la realizzazione di un test congiunto per analizzare la presenza sia di anticorpi diretti contro la Covid-19 che quelli diretti contro il virus dell’Epatite C. “Nel panorama nazionale sono nate numerose iniziative per valutare la sieroprevalenza per il Sars-Cov-2 – ha commentato Massimo Andreoni, Direttore Scientifico Simit (Società italiana malattie infettive e tropicali) e Professore Ordinario di infettivologia all’Università di Roma Tor Vergata – è auspicabile che in queste iniziative si colga l’occasione per attuare quanto previsto dal Decreto Milleproroghe, che ha stanziato un finanziamento di 71,5 milioni per l’emersione del sommerso del virus dell’epatite C, per permettere alle persone affette da questo virus che non sanno di esserlo di poter accedere ai trattamenti”. “Recentemente, – ha concluso – alcune iniziative in tal senso sono state avviate in importanti piazze italiane, a Roma a Piazza del Popolo e a Villa Maraini, dove il test congiunto si è rivolto a una delle categorie maggiormente coinvolte, coloro che fanno uso di droghe per via endovenosa. Ciò ha reso possibile l’analisi di diverse centinaia di soggetti, permettendo di arrivare a numerose diagnosi di epatite C. L’aspettativa è che queste iniziative possano moltiplicarsi a livello nazionale, sia sul territorio che presso strutture sanitarie”.

“Al fine di favorire l’emersione del sommerso, dovranno essere ulteriormente potenziate le collaborazioni fra Medicina territoriale e Centri prescrittori. In particolare, questi ultimi dovranno ottimizzare i loro rapporti con i Serd – ha evidenziato Maurizia Brunetto, Direttore Uo Epatologia Centro di Riferimento Regionale per la diagnosi e il trattamento delle epatopatie croniche e del tumore di fegato e docente straordinario Medicina Interna dell’Università di Pisa – Sarà cruciale riuscire ad ottenere un più pieno coinvolgimento dei medici di medicina generale, che devono diventare i protagonisti del percorso di cura grazie all’identificazione del soggetto infetto. Infine, sarà fondamentale creare percorsi semplici per accedere allo screening e quindi al trattamento, in questo momento il soggetto affetto da Hcv ma asintomatico evita le strutture sanitarie per timore dell’infezione da Sars-CoV2 ed è ancora più difficile da individuare” ha concluso.

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