Sentiamo “autorevoli” personalità che raccontano stupidaggini, che parlano di diritti, che dicono cosa debbono fare gli altri e altre amenità conseguenti.
Tutto ciò accade perché nei vertici delle istituzioni del potere legislativo e di quello esecutivo si trovano persone ignoranti (non tutte), nel senso che non hanno studiato, che non conoscono i pilastri dell’umanità, che non capiscono come gli eventi si ripetano e come la storia non insegni nulla.
Costoro, proprio per le responsabilità che hanno, in quanto occupano i vertici di Stato, Regioni e Comuni, dovrebbero cominciare ogni discorso con una parola magica: Dovere. Con ciò richiamando la necessità che ogni cittadino/a compia prima il proprio dovere e solo dopo parli di diritti.
Ricordiamo che Giovanni Falcone, quando riceveva lo stipendio, si domandava: “Me lo sono meritato?”. Se nel nostro Paese prevalesse la comunicazione sui doveri piuttosto che sui diritti, le cose andrebbero molto meglio.
I cittadini dovrebbero comportarsi sempre in modo educato e rispettoso nei confronti degli altri cittadini; poi dovrebbero imparare a ragionare, riflettere e quindi decidere con la propria testa e non con quella degli altri, con la conseguenza di scegliere i migliori (quelli veri) da inviare a occupare gli scranni parlamentari e indurre i partiti a segnalare al Presidente della Repubblica personalità di grande rilievo e cultura per farle diventare ministri, vice ministri, sottosegretari. Insomma, un potere esecutivo di grande livello e non di mediocri.
Per questa finalità occorrerebbe che fosse pubblicizzata la “Carta dei Doveri”, fra i quali avrebbero rilievo il rispetto verso il prossimo, il pagamento delle imposte, l’apporto individuale alla Collettività, la capacità di mettere al bando imbroglioni, disonesti, corrotti e corruttori.
I cittadini pensanti dovrebbero avere come tema continuativo una domanda: “Qual è il male principale?”. La risposta è lapalissiana: “Non fare il bene”. Un concetto molto semplice a dirsi, ma difficile ad attuarsi. Eppure bisogna provarci.
In un Paese variegato come il nostro, che ha appena 161 anni di vita comune (1861-2022), la moltitudine di razze, costumi, dialetti, abitudini, ha impedito di farlo diventare un Paese unico, in cui dovevano emergere gli interessi collettivi su quelli personali.
Questo non è avvenuto perché i responsabili delle istituzioni non hanno adeguatamente investito nel capitale umano, che è l’ascensore sociale insieme alla formazione continua, per far emergere i più bravi in base al principio generale della graduatoria di merito.
L’ascensore sociale è essenziale per consentire a tutti i giovani, di qualunque censo e ovunque siano nati, una sorta di competizione ad armi pari, anche se poi questo nella realtà non avviene.
Sappiamo benissimo che i luoghi modellano le persone: chi nasce in periferia non ha le stesse opportunità di chi nasce in quartieri centrali; chi nasce in famiglie povere non ha le stesse opportunità di chi nasce in famiglie facoltose.
Nel nostro Paese, per fortuna, a volte è applicata la regola: “Chi non sa, non vale; chi sa, vale di più”. Però non sempre perché vi è stato (e vi è) un crollo della cultura, alimentata da quegli apparecchietti di cui ormai ogni persona non può fare a meno e che custodisce gelosamente dentro il palmo della propria mano.
E così, con un’ignoranza che diventa sempre più dilagante, si dimenticano i fatti della storia, per cui non se ne trae profitto, ricommettendo gli stessi errori.
La gente non capisce il più grande valore collettivo e personale: la conquista della libertà, che passa necessariamente attraverso la libertà economica e la libertà dai bisogni. La libertà si conquista adempiendo al proprio dovere, lavorando con intelligenza e sagacia e rispettando il prossimo.
Invece, perseguire la litania dei diritti senza pensare prima ai doveri alimenta la corruzione e deforma la convivenza.
Si tratta di una perdita di tempo che distrugge il valore.

