ROMA – La retribuzione media di un lavoratore a tempo pieno in Italia nel 2024 è cresciuta del 2,7% rispetto al 2023, nell’Ue quasi del doppio: +5,2%. Paesi come la Romania, la Polonia, la Bulgaria e la Lettonia hanno invece registrato incrementi che vanno dal 16,7% al 10,2%.
Perdita di potere d’acquisto delle famiglie italiane
La performance italiana vale il quartultimo posto nella classifica dei Paesi dell’Ue. Un dato sconfortante, certificato dall’Eurostat, che fotografa la perdita di potere d’acquisto delle famiglie italiane sempre più in difficoltà nel tenere testa all’aumento dei prezzi che non va di pari passo con l’adeguamento degli stipendi. Rispetto ai 37.840 euro del 2023, la media Ue è salita a 39.808 euro; ciò significa che mediamente un cittadino europeo ha potuto contare su quasi 2.000 euro in più sul conto corrente in un anno; in Italia 873 euro, meno della metà.
Retribuzione media, dove è più alta e dove è più bassa
Tra i Paesi dell’Ue, la retribuzione media annua corretta per il tempo pieno più elevata è stata registrata in Lussemburgo (83.000 euro), seguita dalla Danimarca (71.600 euro) e dall’Irlanda (61.100 euro). Al contrario, gli stipendi medi più bassi sono stati registrati in Bulgaria (15.400 euro), Grecia (18.000 euro) e Ungheria (18.500 euro). Quest’ultima, però, è risultata al quinto osto il Ue per incremento rispetto all’anno precedente: +8,7%. In Italia il dato si ferma a 33.523 euro nel 2024 con un leggerissimo aumento rispetto al 2023 quando la retribuzione era di 32.650 euro. Guardando ai “big” europei e al confronto 2024-2023, ha fatto peggio di noi soltanto la Francia con un +2,4%, la Spagna ha registrato +4,6% e la Germania +5,5%. I Paesi dell’Est Europa, generalizzando, sono quelli che hanno fatto segnare un incremento più evidente.
In Italia retribuzioni ferme al palo
Nel nostro Paese le retribuzioni sono ferme al palo e rispetto ad agosto del 2024, il calo dei consumi reali in Italia, come ha certificato anche l’Istat, è stato dell’1,3% a fronte di una variazione positiva di appena lo 0,5% in valore, ovvero 11 punti base sotto il dato dell’inflazione di agosto che era dell’1,6%. In altre parole si paga di più per comprare di meno.
Crollo dei consumi reali
Il fenomeno è particolarmente evidente nel settore alimentare che ad agosto ha fatto segnare un crollo dei consumi reali del 2,2% (dopo un -0,8% di luglio e un -0,3% di giugno) a fronte in un modesto aumento del fatturato delle vendite di appena l’1,6% nonostante che ad agosto i prezzi degli alimentari siano sempre sui massimi e abbiano sfiorato il +4% (+3,8%) e che i prezzi dei beni alimentari non lavorati siano schizzati a +5,6%.
A incidere sul calo dei consumi, come hanno sottolineato dall’Istat, non è solo la perdita del potere di acquisto dovuta a un aumento dei prezzi non compensato a sufficienza da un aumento degli stipendi (nel secondo trimestre 2025 l’Istat segnala un rallentamento a +0,3% rispetto a un +0,5% del primo trimestre).
Pesa anche la mancanza di fiducia dei consumatori
Sul fenomeno pesa anche la mancanza di fiducia dei consumatori e delle famiglie italiane, che hanno ripreso a risparmiare. Secondo quanto dichiarato da Confesercenti ad Ansa è necessario “liberare risorse per il sostegno ai redditi delle famiglie con tagli significativi all’Irpef. Serve una spinta immediata e significativa ai consumi con interventi mirati per scongiurare l’allarme, sempre più concreto, della desertificazione commerciale che rappresenta una grave minaccia non solo economica, ma anche sociale per i nostri centri urbani e la vivibilità delle nostre città”.


