La responsabilità penale dei ministri ricorre nei casi in cui vengano commessi i c.d. reati ministeriali. In materia, la disciplina costituzionale ha subito una profonda trasformazione. Il testo originario dell’art.96 Cost. prevedeva che il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, venissero messi in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni e giudicati dalla Corte costituzionale in una composizione integrata, comprensiva di altri sedici giudici non togati.
Si trattava, dunque, di una forma di giustizia politica, simile a quella prevista tuttora per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica, nell’esercizio delle sue funzioni (art.90 Cost). L’unico caso nel quale effettivamente si svolse un giudizio a carico di ministri dinanzi alla Consulta fu nel 1979 per la vicenda Lockheed, nel quale furono coinvolti l’ex Premier Mariano Rumor e gli ex ministri Gui e Tanassi, quest’ultimo condannato per corruzione aggravata.
Un processo che bloccò per lungo tempo l’attività della Consulta e mostrò tutti i limiti di una procedura lenta e macchinosa. Così, a seguito del referendum popolare del 1987, con cui furono abrogate le norme sulla Commissione inquirente, ossia l’organismo parlamentare bicamerale che svolgeva le indagini sui reati ministeriali, il Parlamento ha approvato la legge costituzionale n. 1 del 1989, che novella la procedura per accertare le responsabilità ministeriali.
Da allora, con un differente procedimento, i reati commessi dai ministri sono sottoposti alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato o della Camera. I due rami del Parlamento possono negare l’autorizzazione a maggioranza assoluta dei loro componenti qualora ritengano che l’inquisito “abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”.
Il tribunale dei ministri ha inviato, alcuni mesi, gli atti alla Camera dei deputati per la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri Nordio e Piantedosi e del sottosegretario Mantovano, per la nota vicenda di Almasri, il comandante libico arrestato con l’accusa di gravissimi reati e rimpatriato dall’Italia. Con un distinto provvedimento la procura di Roma contesta al capo di Gabinetto del dicastero della Giustizia, Giusi Bartolozzi, nell’ambito della medesima faccenda, il reato di false informazioni rese davanti ai p.m., secondo l’art. 371 bis del Codice penale.
La questione assume particolare interesse in punto di diritto; sembra, infatti, plausibile estendere la richiesta di autorizzazione prevista per i ministri alla dirigente, che ha agito per ottemperare agli ordini ricevuti dal ministro, il quale si è assunto la responsabilità giuridica e politica di ogni azione che riguarda il caso Almasri. Invero, la posizione della persona indagata a titolo di concorso nell’illecito commesso dal ministro trova spazio nella legge n.1 del 1989; in particolare, l’art.5 stabilisce che l’autorizzazione spetta alla Camera cui appartengono le persone nei cui confronti si deve procedere, anche se il procedimento riguardi altresì soggetti che non sono membri del Senato o della Camera.
La norma usa una terminologia generica, “persone” e “soggetti”, invece del termine specifico “ministro”, proprio al fine di ricomprendere anche la figura dell’extraneus, cioè di colui che non possiede la qualifica specifica richiesta dalla legge per la commissione di un reato proprio. Ancor più chiara la disposizione contenta nell’art.4 della legge 219 del 1989, che a proposito dell’autorizzazione parla espressamente di “procedimento relativo ad un reato commesso da più soggetti in concorso tra loro, anche se non si tratta né di ministro, né di parlamentare…”.
Una differente interpretazione, che intendesse porre i soggetti “non ministri” coinvolti, fuori dalla misura autorizzativa, finirebbe per avallare l’idea, che a fronte di un medesimo e contestuale fatto di reato, la politica possa fruire di una disciplina a suo esclusivo vantaggio. La separazione dei coimputati laici dai ministri comporterebbe una inosservanza del principio di eguaglianza, posto che, verosimilmente, tali soggetti avrebbero posto in essere comportamenti sovrapponibili a quelli ministeriali.
In realtà, i giudici imputano a Bartolozzi la commissione di una fattispecie criminosa autonoma, escludendo, quindi, il concorso con i ministri. Con l’effetto di “tratteggiare” un reato differente che abilita il procedimento penale nei confronti della stessa in assenza dell’autorizzazione parlamentare. Ciò malgrado, la condotta illecita che si imputa alla capa di Gabinetto, seppur separata, sembra costituire un segmento di un disegno unitario finalizzato a realizzare la volontà ministeriale.
A questo punto, la Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati potrebbe richiedere al Tribunale dei ministri la medesima procedura autorizzativa, anche per procedere nei confronti della sottoposta e, in ultima analisi, sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato per la mancata richiesta dell’autorizzazione a procedere, in modo che sia la Corte costituzionale a dissipare ogni dubbio sulla intricata vicenda.
Ida Angela Nicotra
Professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Catania

