“Sono stata io e so che ciò che ho fatto è mostruoso”: è quanto ha ammesso, di fronte al magistrato che l’ha interrogata, Lorena Venier, la donna di 61 anni, di Gemona (Udine), che ha confermato di aver ucciso e fatto a pezzi il figlio Alessandro, di 35 anni.
L’omicidio è avvenuto una settimana fa, la notte di venerdì 25 luglio. “La mia assistita ha reso piena confessione di fronte al sostituto procuratore che l’ha interrogata, ma non è stato riferito di una particolare lite scatenante – ha precisato l’avvocato Giovanni De Nardo, che patrocina la difesa della donna – Come si può immaginare, era visibilmente scossa per la crudeltà della sua azione e per la contrarietà a qualsiasi regola naturale del suo gesto” ha dichiarato l’avvocato udinese. “Durante l’interrogatorio ha spiegato nel dettaglio la successione degli eventi, escludendo completamente il coinvolgimento di terzi oltre alle persone che abitavano nella casa assieme a lei”.
L’omicidio
La donna ha agito assieme alla convivente del figlio, Mailyn Castro Monsalvo, cittadina colombiana di 30 anni. Alessandro Venier, di 35 anni è stato trovato morto e fatto a pezzi, in un bidone collocato in una sorta di autorimessa accanto all’abitazione. Le due donne ora si trovano rinchiuse nel carcere del Coroneo a Trieste.
Lorena Venier era una stimata infermiera di Gemona, proprietaria dell’abitazione. La coppia ha una bambina di 6 mesi. La piccola è stata affidata ai Servizi sociali comunali.
Nella villetta, in località Tobaga, proseguono oggi gli accertamenti da parte dei reparti scientifici dell’Arma. Gli investigatori non scartano nessuna pista e sono al lavoro per ricostruire le modalità dell’omicidio.
La dinamica
Sono state proprio le due donne alle 10.37 di giovedì 31 luglio, quasi a una settimana dal delitto, a chiamare la centrale.
Alessandro Venier, disoccupato, faceva lavoretti saltuari. Era cresciuto dalla mamma nella villetta di Gemona senza il padre, un uomo egiziano li avrebbe abbandonati subito, per questo portava il cognome della mamma. Lei – capo sala all’ospedale di Gemona – era l’unica in casa ad avere un’occupazione stabile. La compagna dopo un corso di oss, era rimasta incinta e non lavorava.
La mamma di Alessandro: “Mailyn è figlia che non ho avuto”
“Mailyn è la figlia femmina che non ho mai avuto”: è quanto ha detto agli investigatori la donna di 61 anni, rea confessa. “Forse in questo legame eccezionale – ha fatto sapere l’avvocato difensore della Venier – può esserci la base e la spiegazione di ciò che è accaduto, anche se non intendo specificare altri particolari, che appartengono al segreto istruttorio”.
Liti continue
Aggressività quotidiana che sfociava in violenza per abuso d’alcol, l’indisponibilità a contribuire anche economicamente alla vita familiare e poi la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso: la tavola non apparecchiata. Dalle notizie trapelate, le due donne avrebbero riferito che un paio di sere fa tra loro e l’uomo ci sarebbe stata una violenta lite. Non casuale: sarebbe stato l’ennesimo scontro in un clima di crescenti vessazioni. Prima di mettersi a tavola, è cominciata la discussione perché Alessandro Venier, che avrebbe dovuto occuparsi perlomeno della cena, in realtà non aveva preparato nulla.
Una situazione tesa e difficile, perché nella placida periferia friulana con la nascita della piccola i componenti della famiglia erano diventati quattro e a mantenere tutti era soltanto lo stipendio di mamma Lorena, la quale, seppure apprezzata caposala nel locale ospedale, non guadagnava cifre altissime.
L’uomo dunque, sentendosi fortemente criticato da parte delle due donne per le mancate occupazioni domestiche e nonostante la collaborazione che aveva assicurato, si sarebbe scagliato su entrambe per controbattere alle lamentele. A questo punto la ricostruzione si ferma e prosegue “nel campo delle ipotesi e delle illazioni” come ha precisato anche la procuratrice aggiunta di Udine, Claudia Danelon.
Ipotesi e illazioni che “potranno essere suffragate o meno solo nel corso dell’interrogatorio con le due donne, che hanno trascorso la notte nel carcere di Trieste.
L’avvelenamento
La ricostruzione più verosimile è che madre e compagna, dopo l’aggressione subita, volessero rendere inoffensivo l’uomo. Per questo, potrebbero avergli somministrato farmaci, senza rendersi conto della dose eccessiva che potrebbe averne causato la morte. Ma non si può nemmeno escludere che l’azione – a quel punto il delitto sarebbe premeditato – fosse finalizzata ad assicurarsi che la vittima non potesse reagire, visto anche che si trattava di un uomo di corporatura robusta. Saranno autopsia ed esami tossicologici a stabilire potenzialmente la verità.

