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Femminicidi: la denuncia è il primo passo ma senza prevenzione continuano le morti

Femminicidi: la denuncia è il primo passo ma senza prevenzione continuano le morti
Manifestazione contro la violenza sulle donne

Il professore di Sociologia in UniMe, Pira: “Spesso si ha difficoltà a denunciare perchè il sistema è complesso”

ROMA – Morire sapendo della morte imminente. Tante delle vittime di femminicidio si ritrovano in questa situazione: sia perché conoscono l’aguzzino, che nella maggior parte delle volte vive in casa, sia perché l’apice “fatale” della violenza non arriva quasi mai come caso isolato. Il problema è che non sempre è facile denunciare alle prime avvisaglie. E non sempre, dopo una denuncia, c’è la sensazione di sentirsi al sicuro. “Denunciate, chiedete aiuto” è questa una delle voci disperate che riecheggia nella fiaccolata dei giorni scorsi in memoria di Pamela Genini, uccisa dal compagno.

Femminicidi, in Italia dati allarmanti

I dati sui femminicidi in Italia continuano a essere allarmanti. Il report di ottobre della Direzione centrale della Polizia criminale, diffuso dal Viminale, testimonia come tra il 1 gennaio e il 30 settembre di quest’anno i delitti commessi dal partner o da un ex partner nei confronti di una persona di genere femminile sono stati 44, ma questo dato non tiene ovviamente conto, per ragioni squisitamente temporali, degli ultimi fatti di cronaca.

Oltre al tremendo omicidio di Pamela Genini, uccisa a Milano dal compagno con oltre trenta coltellate, nei giorni scorsi un altro caso di violenza, a Varese, è finito sotto i riflettori: un uomo di 45 anni è stato arrestato dalla Polizia dopo aver picchiato e minacciato la ex 19enne alla fermata di un bus. L’arresto dell’uomo è stato subito convalidato, ma poco dopo è stato rimesso in libertà.

Se dunque nel caso di Genini l’attenzione si è concentrata sulla mancata denuncia della ragazza (il giudice per le indagini preliminari Tommaso Perna, nel provvedimento di convalida del fermo dell’assassino Gianluca Soncin, ha parlato di “profonda frustrazione” per le gravissime minacce mai portate all’attenzione delle Forze dell’Ordine), nel caso di Varese il problema sembra legato all’applicazione delle leggi esistenti e ad alcune zone grigie che rischiano di mettere in pericolo le donne che sono finite nel mirino dei violenti.

Il ministro Nordio: “Il femminicidio è un reato autonomo”

“Fermo restando – ha detto di recente il ministro della Giustizia Carlo Nordio – che le nostre leggi sono le più severe al mondo, tanto che abbiamo introdotto il femminicidio come reato autonomo, le leggi penali oltre a questi limiti non possono andare salvo l’introduzione, che nessuno auspica, della pena di morte. Il problema è essenzialmente educativo. La prima forma di educazione si dà con l’esempio e questo si deve fare in famiglia, fin dai primi anni attraverso il rispetto verso le altre persone”.

Schlein: “Occorre lavorare sulla prevenzione”

Un concetto messo in evidenza anche dalla segretaria del Partito democratico, Elly Schlein: “La violenza maschile si rigenera in un contesto culturale, patriarcale, di cui la nostra società è ancora molto intrisa e che è complesso da decostruire. Di fronte a femminicidi brutali come quello di Pamela Genini, il nostro compito è tenere alta l’attenzione e lavorare moltissimo sulla prevenzione. Noi siamo stati sempre disponibili a lavorare insieme sul contrasto alla violenza di genere, ma questo è avvenuto solo sul terreno della repressione che da solo però non basta”.

Il problema, come si evince, è molto vasto. La domanda “perché non ha denunciato prima?” È corretta ma non esaustiva, come spiega chiaramente Francesco Pira, sociologo e professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Messina. “Subire violenza fisica o psicologica – afferma – è sempre una sconfitta, non si digerisce facilmente. Una donna spesso ha difficoltà a denunciare prima di tutto per il sistema, che è complesso. In seguito a una denuncia, il colpevole può essere diffidato, ci può essere un allontanamento, ma prima che tutto questo succeda, come abbiamo visto in tanti casi, l’omicidio può essere commesso lo stesso. Quindi nel sistema non c’è una corrispondenza veloce tra la denuncia della donna e l’argine al carnefice. A volte, poi, nelle donne c’è una sorta di sindrome da crocerossina, convinta che l’aguzzino si redimerà e che non ricapiterà”.

Denunciare significa anche avere coraggio, ma non sempre l’equazione è semplice: “C’è sfiducia – aggiunge Pira – in un sistema che a volte ha degli intoppi burocratici che possono costare la vita. Io trovo che l’unica strada sia quella di un cambiamento culturale che parta dal basso, di un lavoro costante che abbini prevenzione e normative”.

Un vortice di violenza difficile da interrompere

Di sicuro c’è un vortice di violenza difficile da interrompere, una sorta di “cattivismo”, come lo definisce il professore Pira, trasversale. Che non è rivolto soltanto alle donne: “C’è un momento di recrudescenza, nella nostra società, senza limiti e si riflette anche nel cambiamento epocale del rapporto tra uomo e donna. È una sorta di incapacità di dialogo, di accettare il no. Anche nel caso del delitto di Milano viene fuori che al rifiuto della ragazza la risposta è stata la violenza, ma non una violenza qualunque, una violenza da una trentina di coltellate, che nel caso di Giulia Cecchettin sono state addirittura 75. Dal punto di vista penale ci sono vari accorgimenti, sono aumentati tutti i livelli di guardia, esiste il Codice Rosso, però sappiamo che a fronte di una nuova legge, poi ci sono dati che ci fanno tremare”.

Il momento della denuncia non è neutro nel percorso di una donna che prova a emanciparsi dalla violenza: “Può lasciare un senso d’angoscia – osserva Pira – e di amarezza. Tante hanno denunciato e ora sono sotto terra… Tante altre però si sono salvate, hanno avuto coraggio, diventando così ‘testimonial’, degli esempi che qualcosa può cambiare. Ogni storiaccia ha un suo contesto e in alcuni casi c’è la resilienza e la rigenerazione”.

Al centro della questione, strutturale, c’è l’educazione

Al centro della questione, strutturale, c’è l’educazione: inutile chiedersi come uscirne se non educando fin da piccole le nuove generazioni. “Ancora oggi nelle scuole – riporta il sociologo – non si parla di rispetto dell’altro, di sentimenti, non si fa educazione sessuale, non si insegna che il no è no e non si può estorcere il consenso. Noi educatori dovremmo lavorare su questo dalla mattina alla sera”.

In questo, anche le nuove tecnologie hanno un peso: “C’è questa sensazione – sottolinea il docente – che facendo scroll si possa comprare costantemente il corpo. Penso a TikTok, Instagram, Facebook, Only Fans. E la maggior parte delle volte il corpo è quello delle donne. Questo fa passare un messaggio deviato, che qualunque cosa si può fare”.

E, di certo, c’è anche un meccanismo di emulazione della violenza: “Questa ondata – conferma Pira – nasce anche da tutte le serie televisive che ci fanno capire come squartare e distruggere le persone, come fare stalking… Negli anni Novanta quando i criminologi americani studiavano i bambini delle periferie, si rendevano conto che quelli esposti alla visione di tanti episodi di violenza in televisione avevano una possibilità in più di diventare dei criminali”.

Un segnale del fatto che il vortice di violenze non è tanto una questione generazionale, ma un fatto culturale e strutturale: “La violenza non ha età – conclude Pira – ma fino a quando consegneremo l’educazione sessuale a YouPorn sicuramente non staremo facendo un buon lavoro, perché non c’è educazione alle emozioni. E poi io voglio lanciare un appello a tutti gli uomini che riescono a fare formazione contro la violenza sulle donne: questo impegno vale doppio, perché abbiamo bisogno anche di uomini coraggiosi che si battano”.

Femminicidi: la denuncia è il primo passo ma senza prevenzione continuano le morti

Marisa Scavo: “Dopo la denuncia mettere subito in sicurezza la persona offesa”

ROMA – Lavorare in termini di prevenzione, quando si parla di violenza maschile sulle donne, significa anche interrogarsi sull’efficacia degli strumenti legislativi e di “recupero” che si mettono in campo. Abbiamo approfondito la questione con Marisa Scavo, già procuratore aggiunto vicario della Procura della Repubblica di Catania, coordinatore del gruppo di lavoro di contrasto alla violenza di genere e domestica.

Negli ultimi giorni ci sono stati due casi di cronaca che ci danno uno specchio molto differente. Da un lato a Milano Pamela Genini che è stata accoltellata a morte e da mesi subiva violenza senza denunciare. Dall’altro il caso di Varese, in cui una 19enne si è salvata grazie alla Polizia che ha fermato il carnefice, il quale però è stato in poco tempo rimesso in libertà. Sono due esempi, ma entrambe diffusi. Come commenta queste storie?
“Io raccomando sempre alle vittime di denunciare. Devono denunciare. Preciso, poi, che la denuncia non necessariamente deve essere fatta dalla vittima, ma anche da un’amica, da un parente, da un familiare, dai vicini di casa. Quindi occorre attivare una rete di solidarietà sociale per cercare di proteggere queste donne che da sole non hanno il coraggio di denunciare. Poi è fondamentale che in ogni ufficio giudiziario ci siano gruppi di lavoro altamente specializzati, soprattutto nella capacità della valutazione del pericolo di recidiva. Bisogna immediatamente mettere in sicurezza la persona offesa e questo è un momento delle indagini che richiede anche la collaborazione della vittima. Perché quando si chiede una misura cautelare passa qualche giorno prima di averla. Con l’ultima riforma, il Codice rosso rafforzato con la legge 168 del 2023, i tempi di risposta del Gip devono essere rapidissimi. Mentre prima non c’era nessun termine e quindi le richieste del Pm potevano rimanere ferme per mesi interi. Poi per quanto riguarda l’adeguatezza del provvedimento, il nostro Codice prevede tante misure cautelari: la custodia in carcere, gli arresti domiciliari, l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto di avvicinamento, il divieto di soggiorno, il divieto di dimora. La normativa è veramente adeguata alla Convenzione internazionale di Istanbul perché ha velocizzato le indagini e sono stati posti dei termini al Pm anche per valutare la necessità della richiesta cautelare in 30 giorni. Il legislatore ha dovuto aggiornare e perfezionare la normativa a seguito delle numerose condanne che ha avuto l’Italia da parte della Corte europea dei Diritti dell’uomo”.

La denuncia è uno strumento fondamentale, è il primo passo. Ma la sensazione generale è che a volte gli inghippi burocratici costino la vita. Ci sono stati dei casi in cui la donna ha denunciato però poi, tragicamente, si è consumato il femminicidio. Che idea si è fatta su questo nei suoi anni di servizio?
“Il nostro ordinamento, oltre alla denuncia penale, prevede l’istituto dell’ammonimento, che per esempio a Catania la Questura applica con molta professionalità e tempestività. Sarebbe necessario imporre l’obbligo, per il soggetto ammonito, di un percorso rieducativo per la fuoriuscita dal circuito della violenza. Con l’ultima riforma, peraltro, il soggetto ammonito che commette ulteriori reati di stalking o di violenza domestica, anche nei confronti di persona diversa da quella per cui era stato ammonito, può essere arrestato anche fuori da casi di flagranza”.

Lei quindi è speranzosa sul futuro?
“Dobbiamo lavorare molto sull’uomo violento e maltrattante: abbiamo avuto in passato dei casi in cui i soggetti condannati per stalking dopo l’espiazione di pena, appena usciti, sono andati ad ammazzare le vittime. Coltivano idee psicotiche, deliranti. Quindi la chiave è il recupero. Ho sempre sostenuto che con l’ammonimento si deve anche ingiungere la sottoposizione a questi programmi. È fondamentale, perché abbiamo due beni costituzionali che vanno tutelati: da un lato il diritto alla vita della persona offesa, dall’altro il diritto alla salute del soggetto maltrattante”.

Non solo punizione ma anche rieducazione, giusto?
“Rieducazione, non c’è dubbio, che deve passare dalla sottoposizione a un programma psicoterapeutico di elaborazione, di rielaborazione e di comprensione del disvalore delle azioni che si sono compiute. Quando lavoreremo su questo qualche freno si potrà mettere, perché non è soltanto con la risposta punitiva che il fenomeno si può arginare. Si argina con il cambiamento culturale e lavorando proprio sul soggetto maltrattante”.