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Il femminicidio nel Pescarese, l’ex marito di Cleria Mancini voleva colpire pure il nipote di 12 anni

Il femminicidio nel Pescarese, l’ex marito di Cleria Mancini voleva colpire pure il nipote di 12 anni

Si attende l’esito dell’autopsia sul corpo della donna ma sembra che il colpo letale sia stato uno. E anche il nipote era un obiettivo dell’uomo accusato anche di tentato omicidio

“Vi uccido tutti”. Lo urlava Antonio Mancini, l’uomo che giovedì sera in strada a Lettomanoppello, piccolo centro in provincia di Pescara mentre estraeva l’arma che ha freddato l’ex moglie davanti al nipote dodicenne.

Si attende l’esito dell’autopsia sul corpo della donna, la sessantaseienne Cleria Mancini ma sembra che il colpo letale sia stato uno. E anche il nipote era un obiettivo del sessantanovenne che secondo gli inquirenti voleva uccidere senza riuscirci

Femminicidio nel Pescarese, la ricostruzione del Pm

Il pubblico ministero Giuliana Rana ha ricostruito quanto accaduto ed ha formulato la contestazione provvisoria per omicidio aggravato.

“Dopo aver minacciato la moglie con frasi del tipo ‘vi uccido tutti’”, l’uomo, con precedenti penali, ha sparato “con una pistola semiautomatica un colpo verso di lei e ne cagionava la morte”.

Mancini, subito dopo i fatti si è dato alla fuga e, in carrozzina elettrica, ha raggiunto un bar di Turrivalignani, paese a pochi chilometri di distanza, barricandosi all’interno del locale. All’esterno dell’attività è stato poi bloccato e arrestato dai carabinieri.

Accusato anche del tentato omicidio del nipote

L’anziano è accusato anche del tentato omicidio del nipote di 12 anni: nella contestazione viene sottolineato che l’uomo non è riuscito “nel suo intento perché il proiettile attingeva il lunotto posteriore di una macchina parcheggiata”. L’aggravante perché il reato è stato commesso nei confronti di un familiare. L’uomo, oltre all’omicidio della ex moglie, è accusato anche dei reati di minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.

Sui social era Antonio Ayatollah

In queste ore sono emerse alcune inquietanti pubblicazioni di Mancini sui suoi profili social. Si faceva chiamare “Antonio Ayatollah”.

In un caso, nei mesi scorsi, scriveva “La valigia per il fine pena mai è pronta”, condividendo l’immagine di un borsone. In un altro caso aveva condiviso una sua immagine con dei coltelli in mano, scrivendo “da oggi non ho niente da temere e da perdere”. Non mancavano, sui suoi profili, commenti positivi su Totò Riina. E ancora: “Sfogherò tutta la rabbia che ho accumulato in questi ultimi sei anni”.

Il racconto della titolare del bar

“È arrivato qui davanti e mi ha detto quello che aveva fatto. Mi ha detto ‘ho sparato a mia moglie e non so se è morta. Ho litigato con mio figlio, lei ha iniziato a urlare contro di me e io ho preso la pistola e gli ho sparato’”, il racconto della titolare del bar Belvedere di Turrivalignani, dove l’uomo si è barricato dopo aver ucciso la moglie Cleria.

“Non sapevo cosa fare ma ho cercato di stare calma perché ho visto che era una pistola vera”, racconta la titolare.

“Quando è uscito fuori per rincorrere un cliente, mi sono barricata dentro”

E ancora: “Gli ho versato da bere davanti al bancone e lui mi ha detto che non sarebbe uscito perché doveva aspettare i carabinieri e doveva sparare a tutti i carabinieri che sarebbero arrivati. Poi si è arrabbiato con un cliente che è entrato nel bar, si è innervosito con questa persona. Quando è uscito fuori per rincorrerlo ho chiuso il bar e mi sono barricata dentro perché ero da sola. Lui veniva spesso. Era venuto anche la mattina. Spesso veniva il pomeriggio a giocare a carte. Qui non aveva mai avuto momento di nervosismo e non aveva mai dato fastidio a nessuno”.

Garante detenuti: “Fragilità psichiche gravi peggiorano in carcere”

Monia Scalera, garante dei detenuti della Regione Abruzzo, interviene sul caso di femminicidio di Lettomanoppello, ponendo una riflessione sul ruolo del carcere nei casi di persone con malattie psichiatriche.

“Il tragico femminicidio di Lettomanoppello – sottolinea – impone una riflessione profonda e urgente sul sistema penale e sul modo in cui la società si prende cura o, spesso, non si prende cura, di chi manifesta fragilità psichiche gravi. Si sarebbe potuto evitare? Chi può dirlo con certezza. Ma ciò che è certo è che da episodi come questo dobbiamo trarre insegnamenti, non rassegnazione. Occorre ribadire con forza che la rieducazione non è un principio astratto, ma una missione concreta che deve orientare ogni azione istituzionale. Si parla spesso di rieducazione del detenuto, ma troppo poco si fa per renderla realmente possibile e non per mancanza di volontà da parte di chi lavora ogni giorno negli istituti penitenziari, agenti di polizia penitenziaria, funzionari giuridico-pedagogici, psicologi, direttori, amministrativi, assistenti sociali e personale sanitario, ma per carenza di strumenti, risorse e strutture adeguate. Chi commette un reato deve poter intraprendere un percorso di recupero e reinserimento sociale, costruito su misura, che tenga conto della sua storia, delle sue condizioni psicologiche, delle sue patologie e delle sue potenzialità di cambiamento”.

E aggiunge: “Ogni individuo ha bisogno di un piano personalizzato di trattamento, perché solo così la pena può davvero diventare occasione di riscatto e non semplice contenimento. È ormai evidente la necessità di ampliare il numero dei posti nelle strutture terapeutiche destinate a persone affette da patologie psichiatriche autrici di reato, nonché di rafforzare le connessioni tra il sistema sanitario e quello sociale. Questi due mondi devono procedere insieme, in una logica di corresponsabilità e presa in carico integrata. Il carcere non può essere il luogo per chi soffre di gravi disturbi mentali, né per chi combatte con la dipendenza da sostanze, e ancor meno per coloro che convivono con una doppia diagnosi. In questi casi, la detenzione non solo è inadeguata, ma rischia di peggiorare le condizioni di chi vi è sottoposto, trasformando la pena in un fallimento collettivo”.

Inoltre: “L’impegno delle istituzioni deve essere quello di promuovere la rieducazione, la cura e la prevenzione, affinché episodi come quello di Lettomanoppello non restino soltanto tragedie da commentare, ma diventino un punto di partenza per un sistema penale e sanitario più umano, giusto e capace di tutelare davvero la collettività”.