Fisco e prostituzione, avvocato Maurizio Bruno: "Alla richiesta di versamento tasse deve corrispondere un adeguato trattamento previdenziale" - QdS

Fisco e prostituzione, avvocato Maurizio Bruno: “Alla richiesta di versamento tasse deve corrispondere un adeguato trattamento previdenziale”

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Fisco e prostituzione, avvocato Maurizio Bruno: “Alla richiesta di versamento tasse deve corrispondere un adeguato trattamento previdenziale”

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sabato 10 Dicembre 2022

L'avvocato Maurizio Bruno sulla questione fisco e prostituzione: "Deve esserci un adeguato trattamento previdenziale".

“La prostituzione tra adulti deve essere soggetta a tassazione, poiché è un’attività lecita”: è quanto dichiara la Corte suprema con la sentenza n.20528 dell’1 Ottobre 2010 che sembrava aprire uno spiraglio di dialogo sulla possibile legittimazione della prostituzione come attività lavorativa al pari di qualsiasi altra, dunque con inclusi gli stessi diritti e doveri.
Abbiamo approfondito gli aspetti legali e normativi di una tematica che solleva ancora numerose perplessità con Maurizio Bruno, avvocato patrocinante in Cassazione ed esperto di diritto di famiglia e diritto civile, nonché titolare dell’omonimo studio legale con sede a Roma.

Avvocato Bruno, in Italia prostituirsi non è illegale e bisogna pagare le tasse ma di per sé il sex work non è adeguatamente regolamentato. Ci può aiutare a fare chiarezza?

“Le prostitute possono regolarmente chiedere di aprire una partita Iva iscrivendosi alla Camera di Commercio o Albi professionali, con il codice Ateco 96.09, vale a dire ‘attività di servizi per la persona’. Non esiste dunque una voce specifica relativa al sex work e bisogna ricorre a dei surrogati come attività di estetiste o lavoratrici dello spettacolo, in quanto non viene considerato un illecito ma, allo stesso tempo, non è opportunamente regolamentato e normato. Il Fisco richiede alle professioniste sia l’Irpef che l’Iva connessa con l’attività svolta, che sia abituale o saltuaria, tenendo conto che in molti casi la prostituzione non viene esercitata in modo continuativo, ma per sopperire ad esigenze specifiche o temporanee, il che non esime dall’obbligo tributario. L’Agenzia delle entrate e la Guardia di finanza, dunque, sono autorizzate ad attivare controlli e accertamenti fiscali. In generale, la sentenza della Cassazione del 24 luglio 2013 ha confermato la legittimità della sentenza dello stesso anno della Commissione tributaria regionale della Liguria, che aveva previsto un pesante accertamento fiscale nei confronti di una prostituta, precisando che i guadagni dovevano essere considerati a tutti gli effetti una fonte di reddito. Da qui la possibilità e il diritto del Fisco di accertare il versamento contributivo delle lavoratrici sia per quanto concerne l’Iva che per l’Irpef. In taluni casi l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate ha riguardato non solo l’evasione dell’Irpef, dell’Iva e dell’Irap, ma anche dei contributi Inps e qui apriamo un’altra tematica importante”.

Come si articola la questione dal punto di vista previdenziale? Le prostitute hanno diritto alla pensione?

“La Cassazione ha stabilito l’obbligo di pagare le tasse e gli enti preposti possono effettuare tutti i controlli del caso ma il vero problema, appunto, è l’aspetto contributivo che necessita di essere normato. È già piuttosto complicato per le professioniste emettere fattura, dovendo richiedere al cliente di rilasciare i propri dati personali che spesso preferisce omettere per questioni di privacy. Ora si solleva una questione di carattere etico ma anche normativo. Se, come previsto dall’articolo 8 della Costituzione italiana ‘i lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, ecc’, lo stesso deve valere anche per le sex workers. Dovrebbe essere creato un sistema previdenziale ad hoc, simile a quello dei calciatori. Questo perché è molto difficile che una donna prosegua una professione così logorante per il proprio corpo per 30 o 40 anni. In sintesi, se lo Stato lo considera come lecita e non semplicemente come attività non vietata e se si pretendono le relative tasse, non si può impedire alla prostituta di versare i contributi per poter contare su un trattamento pensionistico al termine del periodo lavorativo. Risulta molto difficile che una donna riesca a raggiungere nel periodo di attività i contributi sufficienti ad ottenere una sufficiente pensione o ad accumulare abbastanza denaro per garantirsi un trattamento pensionistico privato”.

Senza tralasciare l’aspetto della tutela sanitaria…

“Ci sono diversi studi che dimostrano che l’attività di prostituta rappresenta un vero e proprio lavoro usurante. Questo perché esiste fisiologicamente una differenza importante tra l’uomo e la donna. Fatti salvi alcuni casi specifici, come quello della donna di 65 anni recentemente uccisa a Roma, tendenzialmente le donne dopo la menopausa tendono a mollare questo tipo di lavoro, considerato anche che con la cessazione dell’età fertile cessa anche l’interesse sessuale. Le prostitute possono dunque svolgere il proprio lavoro per un periodo limitato di tempo che difficilmente consentirà loro di accedere ai trattamenti minimi previdenziali, per non parlare di malattia e infortunio”.

Come si muovono gli altri paesi in tal senso? Da chi potremmo prendere esempio?

“All’estero troviamo fondamentalmente tre linee normative sulla tematica. Vi sono paesi come la Russia, la Bielorussia, l’Albania e altri in cui la prostituzione è vietata costituzionalmente e in cui persegue un modello proibizionista in cui l’attività viene sottoposta a sanzioni penali sia per chi la pratica che per chi ne fruisce. Vi è poi un secondo modello, quale quello abolizionista, in cui il sex work non è vietato ma allo stesso tempo non è regolamentato, così come avviene in Italia. Infine il terzo abbiamo il terzo filone che troviamo in Svizzera, Paesi Bassi, Germania e Austria che si definisce regolamentarista. Il tutto, dunque, è opportunamente normato e sono previste tutte le tutele previdenziali del caso, è ammessa la presenza di luoghi predisposti alle attività in oggetto e la prescrizione di controlli sanitari obbligatori per prostitute e prostituti per la prevenzione e il contenimento delle malattie veneree. Va detto poi che vi sono alcuni paesi che rappresentano un’eccezione a sé, quali la Norvegia e la Danimarca che sono passate da una linea tollerante a un singolare estremo rigorista: ad essere punito non è chi fornisce il servizio bensì soltanto il cliente, in quanto si tratterebbe di una violenza dell’uomo nei confronti della donna che, a pensarci, sembra un paradosso. Tenuto conto del fatto che nella maggior parte dei casi un soggetto che decida di prostituirsi lo fa tendenzialmente per ragioni di grande necessità o difficoltà, emerge la necessità in paesi come il nostro di riconoscere effettivamente la prostituzione e le prestazioni erogate come un lavoro ordinario insistendosi per la legalizzazione del fenomeno, così come avviene nei paesi che ne hanno regolamentato ogni singolo aspetto e credo che questa sia una richiesta lecita che le professioniste del settore hanno il diritto di poter reclamare allo Stato”.

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