Fisco, la parte soccombente penalizzata in caso di lite temeraria - QdS

Fisco, la parte soccombente penalizzata in caso di lite temeraria

Salvatore Forastieri

Fisco, la parte soccombente penalizzata in caso di lite temeraria

venerdì 24 Maggio 2019

Il caso: ignorato parere del Garante del contribuente, Amministrazione finanziaria “punita”. Chi perde paga le spese ma rischia anche la “responsabilità aggravata”

ROMA – Il Decreto Legislativo 546 del 31 dicembre 1992, riguardante il contenzioso tributario, stabilisce, all’articolo 1, comma 2, che “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.
Lo stesso Decreto, all’articolo 15, comma 1, con riguardo alla soccombenza ed al pagamento delle spese di giudizio, dice più in particolare che “La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza”.
Lo stesso articolo, al comma 2 bis, stabilisce pure che “Si applicano le disposizioni di cui all’articolo 96, commi primo e terzo, del codice di procedura civil.”.

In pratica, chi perde è tenuto a pagare le spese del procedimento. Ma non solo. In caso di “lite temeraria”, ai sensi del citato art. 15 del D.Lgs. 546/1992 (modificato dal D.Lgs. 24 settembre 2015 n. 156), subisce anche la penalizzazione prevista dall’articolo 96 del codice di procedura civile secondo cui “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. (…) In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

È quello che è accaduto nel caso recentemente preso in esame dalla Commissione Tributaria Provinciale di Perugia.
I Giudici di primo grado perugini, con sentenza n. 135 del 15 marzo 2019, depositata l’8 aprile scorso, hanno affrontato un caso particolare, riguardante la revoca di una revoca di agevolazione fiscale in materia di “piccola proprietà contadina”.
L’Ufficio, infatti, in prima battuta, ritenendo di avere sbagliato e, quindi, considerando illegittimo l’avviso di liquidazione che aveva già notificato alla parte, in autotutela lo ha annullato.
Poi, però, tornando sui suoi passi, ha cambiato opinione, ritenendo di dovere confermare il recupero fiscale originariamente operato. A tal fine, ha “revocato” l’atto di revoca che aveva precedentemente posto in essere.
C’è da dire, a questo punto, che il contribuente si era rivolto al Garante del Contribuente il quale, manifestando il parere favorevole all’applicazione dell’agevolazione fiscale, aveva “attivato l’autotutela” ai sensi del comma 6 dell’articolo 13 delle Legge 212/2000 (Statuto dei Diritti del Contribuente), chiedendo all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente di “revocare la revoca della revoca”.

L’Ufficio, però, era rimasto inerte alla sollecitazione del Garante, disattendendo i suoi suggerimenti e dando luogo al ricorso della parte contribuente.

La Commissione Tributaria, esaminata la fattispecie, ha accolto il ricorso proposto dal contribuente.
Ha anche fatto, tuttavia, alcune importanti osservazioni.
A prescindere dal merito della questione controversa, i Giudici perugini, sulla base di quanto stabilito dal 1^ comma dell’articolo 1 del citato Decreto legislativo 546/92, hanno affermato che “L’asserita insindacabilità giurisdizionale della P.A. in tema di autotutela confliggerebbe manifestamente, per tacer d’altro, con l’articolo 113 della Costituzione.”. Violerebbe, cioè, la norma costituzionale secondo la quale “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.”.

Poi, riferendosi all’Autorità “Garante del Contribuente”, la Commissione ha stigmatizzato il fatto che l’Ufficio fiscale ha palesemente disatteso le sue considerazioni ed il suo invito ad annullare la propria pretesa. E nel far ciò, ha pure ricordato l’importante funzione di “arbitraggio” del Garante, a garanzia dell’imparzialità degli atti della Pubblica Amministrazione. Una garanzia la quale, sempre ad avviso degli Giudici di Perugia, in realtà non avrebbe motivo di esistere considerato che è proprio la Costituzione, all’articolo 97, che prevede l’imparzialità della Pubblica Amministrazione.

Dopo queste importanti considerazioni, la Commissione Tributaria Provinciale di Perugia, nell’accogliere il ricorso della parte contribuente, ha condannato l’Amministrazione Finanziaria a pagare le spese del giudizio.
Ma ha fatto ancora di più. Molto probabilmente, in considerazione dell’esistenza di un parere espresso dal Garante del Contribuente favorevole al contribuente ma disatteso dall’Ufficio, ha ritenuto applicabile la disposizione di cui al comma 2 bis dell’articolo 15 del più volte citato D.Legislativo 546, ossia l’applicazione dell’articolo 96, commi primo e terzo, del codice di procedura civile, condannando l’Agenzia delle Entrate al pagamento di una somma “equitativamente liquidata”, a titolo di responsabilità aggravata.

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