Il mio impegno per la legalità: la scrittrice Francesca Incandela al Qds
MAZARA DEL VALLO (TP) – Alla scrittrice mazarese Francesca Incandela è stato conferito il “Riconoscimento Speciale – Mimosa d’oro”, inserito nel contesto del XXXI “Premio Mimosa d’Oro 2022” organizzato dal “Centro culturale Renato Guttuso” di Favara. “Per l’eccezionale impegno per la legalità”, questo è quanto si legge tra le motivazioni di assegnazione.
In esclusiva per il QdS Incandela ci ha raccontato il suo impegno nel sociale che si è concretizzato anche con la creazione della prima associazione antiracket a Mazara del Vallo, un contesto economico a forte vocazione imprenditoriale ma, purtroppo con forti presenze mafiosa.
Qual è stato l’input per intraprendere questo percorso?
“Per potere rispondere, è necessaria una premessa: sin da piccola l’educazione che ho ricevuto dai miei genitori è stata improntata al rifiuto di ogni compromesso o raccomandazione, alla responsabilità e all’onesta’. Pertanto nel corso degli anni sono stati questi valori le basi delle mie azioni. Ho voluto ricordare la mia prima formazione poiché sono stati proprio gli alunni a darmi lo sprone. Ricordo che una mattina, affrontando la problematica del ‘pizzo’ sui motorini rubati e poi restituiti dietro la richiesta di denaro, al mio alterarmi un alunno mi puntò contro un dito dicendo ‘lei parla bene, questo si vede, ma cosa fa per cambiare questo stato di cose?’. Fu come uno schiaffo, mi sentii sotto accusa, per giorni ebbi davanti agli occhi l’immagine di quel ragazzo. Era proprio vero, non bastava l’esempio della mia ira e non erano più sufficienti le parole, dovevo agire. Da quel momento impegnai le mie forze ed il mio tempo ad imparare, a studiare più a fondo il problema, frequentai dei corsi, comprai libri e saggi, presi contatti con altre associazioni, chiesi aiuto all’amministrazione, conobbi il professore Lo Verso che si occupa di psiche mafiosa e lanciai il mio appello in una tv privata affinché i miei concittadini mi fossero accanto. Risposero in due: un amico scrittore ed un giovane universitario. Nacque la prima associazione antiracket a Mazara del Vallo ‘Io non pago il pizzo… E tu?’”.
Cosa ha fatto l’associazione nel corso di questi anni?
“Il primo problema di cui ci occupammo fu proprio quello del pizzo sul motorino, scoprii che era un triste fenomeno diffuso ma pochissimi denunciavano. Grazie ad alcuni dirigenti scolastici organizzammo nelle scuole – coinvolgendo i genitori- campagne di divulgazione contro il pizzo attraverso incontri con le forze dell’ordine, filmati, dibattiti il cui fine era quello di non cedere al ricatto di estorsione, di perseguire la legalità ed il rispetto delle regole in qualsiasi ambito della vita sociale. Da lì nacquero altre occasioni pubbliche di diffusione e di coinvolgimento attraverso attività giornalistiche, pittoriche, teatrali e musicali. I giovani si avvicinarono e ci aiutarono a diffondere un questionario alle famiglie sulla mentalità mafiosa e comportamenti illeciti che in Sicilia per molti rappresentano la ‘normalità’! Fu a quel punto che un gruppo numeroso di pescatori e marittimi volle incontrarmi, mi parlarono di condotte illegali di alcuni armatori, di buste paga non conformi, di un iniquo contratto di lavoro. ‘Lei si occupa di legalità e quindi non può lasciarci soli’, era il 2006, l’associazione era nata da pochi mesi ma già aveva attirato l’attenzione della Prefettura e della Questura di Trapani e dei media. Furono mesi molto duri e fitti di incontri col prefetto Finazzo, il questore Gualtieri, il comandante provinciale dei carabinieri Vincelli che mi furono vicini, di grande aiuto e sostegno morale, poiché nel frattempo un giovane imprenditore campobellese chiese il mio aiuto dopo avere subito un vile attentato da alcuni mafiosi locali, gli fecero saltare con l’esplosivo i mezzi meccanici proprio vicino all’abitazione, mettendo a rischio la vita dei suoi familiari. Lo aiutammo a denunciare, anche se arrivavano segnali di intimidazione. Decisi di rendere pubblico il caso e si occuparono di noi a livello nazionale. Riuscimmo anche a raccordarci con altre associazioni antiracket tra cui Addiopizzo, l’idea era quella di fare rete, di essere squadra, soprattutto nella provincia di Trapani, di mostrarci più forti dei mafiosi, di respingerli nell’anonimato. Anni di grande impegno poiché le risorse finanziarie erano inesistenti, io continuavo il mio lavoro di docente e il mio essere moglie e madre”.
Cosa vuol dire essere donna ed occuparsi di legalità?
“Essere donna, nascere donna al Sud quasi sempre significa una limitazione. Anche se tenti di conciliare i diversi aspetti e le varie attività che ti proponi di svolgere, ti fanno sentire colpevole di avere trascurato qualcosa o qualcuno. In quegli anni ho avuto la possibilità di insegnare in un corso serale, pertanto riuscivo a barcamenarmi tra appuntamenti e famiglia. La giunta di allora, su mia richiesta urlata in un megafono con una piazza semideserta, assegno’ all’associazione la stanzetta in cui aveva lavorato come pretore Borsellino ed, attraverso un progetto accettato da una società di comunicazione di Bologna, riuscii ad ‘arruolare’ alcuni volontari pagando le spese vive. Tengo a precisare che tutte le altre spese erano a mio carico, non l’ho mai nascosto. Essendo abbastanza conosciuta per le mie attività culturali ed il mio impegno nel sociale, ricevetti i soliti ‘ma cu ti lu fa fari’ ‘vedi che hai famiglia’ ‘impegnati in qualcos’altro, cca’ mafia un cci nne’, che sicuramente non erano frasi discriminatorie in quanto donna ma in quanto toccavo alcuni nervi scoperti. Proprio accanto alla stanza di Borsellino, che occupavo, c’era l’ufficio appalti del Comune e presto un funzionario venne arrestato proprio per associazione mafiosa”.
Quali difficoltà ha incontrato nel corso del suo percorso associativo?
“Ero scomoda in quel posto e la successiva amministrazione mi spostò in periferia, in un immobile confiscato ad un mafioso mazarese. La Passionaria – come venni definita – non era più nel centro della città dove intratteneva dialoghi e distribuiva materiale ai suoi concittadini, venni isolata in estrema periferia e naturalmente a poco a poco sfrattata. In prefettura ed in questura il cambio dei funzionari fece sì che l’associazione non fosse più coinvolta o chiamata a collaborare, intanto stavamo seguendo la denuncia ad un mafioso per usura. È pur vero che alcune associazioni antiracket del territorio trapanese, proprio in quel periodo, sono state coinvolte in brutte storie, così anche altre nazionali e ciò ha fatto il gioco dei mafiosi, ovvero di screditare la cosiddetta antimafia, la nostra invece ha sempre filtrato le persone che c’erano o che si avvicinavano respingendo i cosiddetti infiltrati. Le denunce sono andate a buon fine, non ci siamo fermati ma l’isolamento e l’emarginazione erano palpabili”.
Quali consigli si sente di dare alle giovani donne che vogliono prendere un percorso simile al suo?
“In quest’ultimo periodo l’attività dell’associzione si è concentrata sul ruolo delle donne all’interno delle famiglie mafiose, un ruolo di primo piano demolendo lo stereotipo che vuole definire ignare, non colpevoli, defilate le madri, le mogli, le sorelle dei mafiosi, nella realtà invece esse sono allineate, attive, complici e ugualmente colpevoli. Pertanto alle donne di mafia continuo a lanciare il mio appello affinché siano rivoluzionarie e portatrici di vita e non di morte dissociandosi dai clan e facendo mancare il loro sostegno nonché annullando la cultura dei disvalori mafiosi. Alle giovani e meno giovani donne che presto mi auguro prendano il mio posto, vorrei dire di non arrendersi, di non rassegnarsi e di essere consapevoli che attraverso la cultura si può diffondere il concetto di una legalità vera che ci rende liberi, capaci di fare delle scelte, responsabili, di respingere le lusinghe mafiose e di ogni malaffare”.