Gli eventi della guerra scoppiata il 13 giugno scorso tra Iran ed Israele, che ha visto l’intervento degli Stati Uniti a fianco dello Stato ebraico, pure nota come guerra dei dodici giorni, ha avuto il fine dichiarato di impedire che il regime di Teheran si dotasse di ordigni nucleari, che secondo i fini, da anni, professati dal regime degli Ayatollah, potevano essere lo strumento più idoneo per la distruzione e cancellazione dalle carte geografiche di Israele.
Un obiettivo perseguito dichiaratamente dal 2003, quando divenne presidente della repubblica islamica Mahmud Ahmadinejad. Concausa di conflitto è la circostanza, ben nota, che il governo di Teheran è grande sostenitore con ogni mezzo, nonché solidale, dei gruppi terroristici con cui Israele è costantemente in conflitto, giacché anch’essi perseguono il fine di distruggere lo Stato ebraico. In questa congrega, come è noto, hanno un ruolo di primo piano: Hamas, Hezbollah, Youthi, Jihad Islamica Palestinese, Al-Quaeda, che hanno dato luogo ad iniziative tanto incalzanti, per cui Benjamin Netanyahu, di recente, ha dichiarato di doversi difendere contemporaneamente, su sette fronti di guerra diversi.
Tutto questo contesto non deve far dimenticare all’Occidente, per nessuna ragione, compresa quella di dare al più presto il migliore assetto possibile al governo di Teheran, che in Iran esiste un movimento di resistenza civile che conta molti più aderenti rispetto a una qualsiasi altra organizzazione politica strutturata e dotata di una vera e propria connotazione definita, su cui peraltro, dopo l’ultimo conflitto, si è abbattuta la scure della reazione di Stato.
A questo primo e più popoloso movimento appartengono tutte quelle persone che costantemente contrastano lo strapotere del regime con i gesti della vita di ogni giorno, a cui appartengono, in primo luogo, le donne che scendono in strada senza indossare il velo, pur avendo la consapevolezza che la polizia morale non è affatto tenera con loro, e che di maltrattamenti si può morire, come è accaduto nel settembre 2022 a Mahsa Amini, rea soltanto di non aver indossato correttamente l’hijab, e a tante altre ragazze, casi meno noti di persone gravemente malmenate e anche detenute senza nessuna colpa. I giovani che ballano, che bevono una birra o che inscenano manifestazioni di protesta spontanee, o semplicemente tengono uno stile di vita simile a quello occidentale, sanno bene che per ciascuno di loro una pallottola può essere sempre in serbo, e comunque è grande il rischio di un lungo periodo di detenzione, nelle celle della tremenda prigione di Evin, dove sono destinati dissidenti e stranieri. Rischio a cui restano esposti persino coloro che sono costretti a studiare in clandestinità argomenti o semplicemente leggere testi invisi al regime ed alle sue guardie della rivoluzione.
Il peggior regalo che l’Occidente possa fare a questo popolo, nel pio desiderio di provocare un cambio di regime, oltre a bombardamenti che possano colpire la popolazione civile, è tirare fuori dalla soffitta della storia uno dei discendenti della dinastia Pahlavi, più o meno prossimo congiunto del deposto scià di Persia e porlo a capo dello Stato, restaurando quello che è stato il trono del Pavone, perché sarebbe un anacronistico innesto, che darebbe luogo ad un rigetto immediato. Un popolo, di grande civiltà e di millenaria cultura, ha diritto a percorrere la sua non breve, faticosa e anche tortuosa strada che lo porterà alla democrazia e a quel modo di vivere, ben noto, non dissimile da quello dei Paesi socialmente più avanzati, che vigeva nella terra di Iran prima del rovescio della monarchia e dell’avvento del regime islamico con la violenza dei suoi Pasdaran. Quale sarà il futuro politico dell’Iran oggi è difficile da immaginare, ma è certo che nella logica della geopolitica mondiale sono tornate a essere sempre più importanti le religioni.

