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I “cannoni” corrono più veloci del welfare

I “cannoni” corrono più veloci del welfare

Tra 2019 e 2025 balzo del 46% per le spese di difesa, crescita più moderata per sanità (+25) e istruzione (+21)

Crescono a ritmi costanti gli investimenti dell’Italia nel settore delle armi. Confrontando il quinquennio 2020–2024 e quello 2015–2019, l’export di armamenti italiani è aumentato del 138%. L’Italia è il sesto esportatore mondiale, con una quota del 4,8% del mercato globale. Una vasta rete industriale che coinvolge centinaia di imprese dell’indotto, da Avio a Mbda Italia, da Elettronica a Oto Melara passando per Leonardo S.p.A. società a partecipazione statale controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (detiene circa il 30,2% del capitale sociale, nda). I dati provengono dall’ultimo rapporto Sipri – lo Stockholm international peace research institute, il più autorevole osservatorio internazionale sul commercio di armi. L’incremento colloca l’Italia davanti a industrie belliche riconosciute come quella israeliana e subito alle spalle di colossi storici come Stati Uniti, Francia, Russia, Cina e Germania.

Secondo il Sipri, nel quinquennio 2020–2024 i principali destinatari delle esportazioni militari italiane sono stati Qatar, Egitto e Kuwait; oggi la domanda si sta spostando verso l’Asia sudorientale. Nel 2024 il principale destinatario delle autorizzazioni italiane all’export di armamenti è stata l’Indonesia (oltre 1 miliardo di euro). Tra i successivi Paesi destinatari figurano Francia e Nigeria, mentre Qatar ed Egitto restano comunque clienti di lungo periodo. Nello stesso anno, Roma ha autorizzato esportazioni verso 90 Paesi, sette in più dell’anno precedente. Tra questi compaiono diversi Paesi che organizzazioni come Amnesty International considerano ad alto rischio di violazioni dei diritti umani, tra cui Turchia, Pakistan, Arabia Saudita e vari Stati africani.

Sulla base della Legge di Bilancio 2025-27 (L 207/2024), riporta il Servizio Studi della Camera dei Deputati, nel 2025 sono previste spese “autorizzate” per il Ministero della Difesa che raggiungeranno circa 31,3 miliardi, con un aumento del 7,2% rispetto al 2024 e del 46,3% rispetto al 2019 (21,4 miliardi). Il trend, che con l’attuale manovra in discussione è passibile di ritocchi, è quello di un incremento costante: lo scorso anno le spese sono state pari a 29,2 miliardi, mentre nel 2023 erano state 27,7 miliardi. L’incidenza delle spese militari rispetto al Pil è così passata dall’1,2% del 2019 all’1,42% del 2025 (quest’ultimo dato è calcolato sulla base della stima nominale del Pil pari a 2.200 miliardi di euro contenuta nella Nadef 2025).

Una crescita importante soprattutto se messa a paragone con altre spese fondamentali del bilancio dello Stato, ossia quelle che riguardano salute, istruzione e assistenza ai cittadini. Proprio nei giorni scorsi l’Osservatorio del Think tank “Welfare Italia”, in un rapporto promosso dal Gruppo Unipol in collaborazione con The European House-Ambrosetti, ha dato alcuni numeri sul sistema welfare italiano, la cui spesa complessiva nel 2023 è “stata pari a 668,7 miliardi di euro”, in aumento del 4,2% rispetto al 2022 (641,7 miliardi di Euro) e “pari al 58,4% della spesa pubblica totale”.

Tralasciando la previdenza e andando a vedere le altre tre voci di cui si compone il welfare notiamo che sebbene si assista a una crescita, questa è comunque più contenuta, ovviamente in percentuale, di quella militare (aumentata di quasi il 30% tra 2019 e 2023). Per esempio, nel 2023 la spesa sanitaria ha raggiunto i 138,3 miliardi di euro, un valore in aumento di solo l’1,1% rispetto all’anno precedente e del 14,2% rispetto al 2019 (ma rispetto al Pil si registra un calo al 6,5%, -0,3 punti in meno rispetto al 2022 e -0,2 rispetto al 2019).

Per l’istruzione la spesa è arrivata nel 2023 a 83,6 miliardi: +4,5% rispetto agli 80 miliardi del 2022 e +17,1% rispetto ai 71,4 mld del 2019: ma anche qui va precisato che il peso sul Pil è sceso di 0,1 punti percentuali (si è attestato al 3,9% dai 4.0 registrati sia nel 2022 che nel 2019). Per le politiche sociali, infine, la spesa si è ridotta dai 108,3 miliardi del 2022 ai 105,6 miliardi del 2023 (-2,5%) con 0,4 punti di Pil in meno (da 5,3 a 4,9). Rispetto al 2019, però, la crescita è netta, certamente grazie alla “spinta”, per non dire booster, del Covid: nell’anno pre pandemico, infatti, la spesa si attestava a 86,2 miliardi.

C’è stato quindi un balzo pari a +22,5% tra 2019 e 2023 e il trend negli anni successivi, stando alle previsioni elaborate sempre dal think tank Welfare Italia (su dati Eurostat e Documento di economia e finanza), dovrebbe restare in territorio positivo. Si stima tra il 2019 e il 2025 un aumento delle spese per il welfare in tutte le sue componenti: politiche sociali (+35,2%), sanità (+24,8%), previdenza (+25,3%) e istruzione (+21,1%). Un risultato comunque inferiore rispetto alla già citata crescita del 46,3% stimata, nello stesso intervallo di tempo, per quanto riguarda gli investimenti in armamenti. Rispetto al Pil, inoltre, nei sei anni in considerazione, per la sanità l’incidenza dovrebbe scendere da 6,7 a 6,5, per l’istruzione restare stabile a 3,9, mentre le politiche sociali dovrebbero vedere un risultato positivo di oltre mezzo punto (da 4,7 a 5,3).

Sullo sfondo il contesto europeo che riveste un ruolo determinante nell’adozione delle scelte politiche. Dalla guerra in Ucraina (2022) in poi, la Commissione Europea ha varato una serie di programmi di riarmo congiunto per incentivare la produzione di munizioni e sistemi di difesa. In proposito va ricordato anche il piano ReArm Europe, presentato da Ursula von der Leyen, che punta a mobilitare fino a 800 miliardi di euro per rafforzare la difesa europea entro il 2030, tramite nuovi strumenti finanziari e maggiore flessibilità sulle regole di bilancio: una quota della spesa militare potrebbe essere temporaneamente esclusa dal calcolo del deficit.

Mannino (Cgil Sicilia): “Diritti e sviluppo solo con la pace”

Il piano ReArm Europe varato a livello comunitario ha riaperto in tutta Europa il dibattito su priorità, risorse e visione di futuro: una mobilitazione complessiva superiore agli 800 miliardi di euro per rafforzare capacità militari e catene di approvvigionamento della difesa, con strumenti nuovi come il meccanismo Safe da oltre 150 miliardi di euro per acquisti congiunti. In questo scenario si inserisce la posizione netta della Cgil Sicilia, affidata al segretario generale Alfio Mannino, che contesta la “corsa al riarmo” e rilancia l’alternativa di una politica economica orientata alla pace. “Non è con le armi che debbono risolversi i conflitti internazionali, ma con la mediazione e la forza della diplomazia. I diritti e lo sviluppo si affermano solo se c’è la pace. In questi anni stiamo vedendo come le guerre colpiscano indistintamente militari e popolazione civile, adulti e bambini, producendo una devastazione di cui Gaza è simbolo e monito”, spiega il numero uno del sindacato al QdS.

Sul piano operativo, già oggi si registrano scelte che trasferiscono risorse europee verso progetti legati alla difesa: una dinamica che rischia di comprimere investimenti nel welfare, nella ricerca, nell’istruzione, nella sanità e nella pubblica amministrazione. Tutti settori già oggi in ginocchio tra accorpamenti, demansionamenti, chiusure e taglio di fondi. A questo proposito, Mannino richiama cifre e priorità: “Mentre 280 milioni dei FESR e del FSC vengono dirottati su opere per la difesa, basterebbero 10 milioni per borse di studio universitarie, 20 milioni per 50 nuovi ispettori del lavoro, 10 milioni per il trasporto scolastico, 50 milioni per stabilizzare i forestali, 40 milioni per stabilizzare i precari Covid, 30 per la manutenzione degli edifici scolastici”. Sul piano industriale la posizione della Cgil è ancora più pragmatica. In Sicilia “non c’è un’industria bellica” e non è il tipo di sviluppo che si desidera. Piuttosto, “si investa sulla transizione energetica e industriale, si valorizzino le vocazioni territoriali, si faccia formazione perché il mondo del lavoro affronti la transizione”.

La proposta del sindacato appartiene a un programma alternativo utile a riallocare scelte e risorse: “Sarebbe paradossale siano le armi e l’industria bellica a sbloccare le politiche industriali del Paese”, conclude Mannino. (H.C.)

Antoci (M5s): “Politiche riarmo sottraggono risorse ai cittadini”

Tra chi, a Bruxelles, sta contrastando la via del riarmo voluta dalla Von der Leyen, c’è anche l’europarlamentare siciliano del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Antoci. “Le politiche di riarmo stanno togliendo risorse ai cittadini e a tutti i settori produttivi”, spiega ai microfoni del QdS. “Nella sua proposta di bilancio pluriennale, Ursula Von der Leyen ha quintuplicato i fondi per la difesa e per coprire i tagli ad altri settori, in primis la politica agricola e quella di coesione – di cui la Sicilia è una delle Regioni che ne beneficia di più – ha creato un fondo unico europeo accorpando difesa, Pac e coesione”, spiega. Si tratta di un passaggio “inaccettabile e siamo contenti che tutti i gruppi politici al Parlamento europeo, persino quelli di maggioranza, abbiano sposato le nostre posizioni minacciando di non votare il bilancio pluriennale. Chi dice che con l’aumento della spesa per la difesa non ci saranno conseguenze per i cittadini dice una bugia”.

A essere colpiti saranno “tutti i ceti produttivi”. Tra questi, soprattutto gli agricoltori siciliani, che “rischiano di perdere miliardi nella programmazione 2028-2034”. Antoci prosegue, ampliando il ragionamento sul piano politico e sociale a proposito del Piano ReArm Europe, che secondo l’ex presidente del Parco dei Nebrodi rischia di produrre a cascata “un grande senso di sfiducia nelle Istituzioni europee”. Armi che, una volta prodotte, possono solo rischiare di essere utilizzate dai Paesi che le acquisteranno. “Il riarmo non è mai una priorità e quello che più mi preoccupa è il dopo. L’Ue ritorni alle sue origini e cioè un progetto di pace”.

Ai confini dell’Europa continuano però a soffiare venti di guerra, come nel caso dell’Ucraina. Questo perché, secondo Antoci, “paghiamo gli errori di leader che si ostinano a rifiutare un dialogo profondo per mettere fine alla guerra in Ucraina. Paghiamo l’assenza di capacità diplomatica dell’Ue nello scacchiere mondiale”. Un spostamento dei finanziamenti potrebbe comportare solo una ulteriore “desertificazione industriale” in Italia. Questo perché “le nostre imprese sono indietro in termine di innovazione e ricerca rispetto ai loro competitori americani e asiatici”.

In questo contesto, l’effetto Pnrr rischia di essere annullato per l’Italia. “Senza il Pnrr, il Pil italiano sarebbe -0,3% nel 2025 e +0,1% nel 2026. Di fatto senza i fondi europei ottenuti da Giuseppe Conte in Europa l’Italia sarebbe in recessione e questo la dice lunga su come il governo Meloni stia gestendo l’economia italiana”. Anche i Cinque Stelle hanno “chiesto più volte al Parlamento europeo una proroga, non per togliere le castagne dal fuoco alla maggioranza, ma perché noi abbiamo a cuore il sistema Paese”. La certezza che i fondi ricevuti dall’Europa non saranno spesi integralmente, è già assodata: ad oggi, la capacità di spesa si attesta intorno al 30%. Ma la scadenza è al prossimo 30 giugno. (H.C.)

De Sena: “Incremento spese non legittima regressione diritti sociali”

Pasquale De Sena, ordinario di diritto internazionale all’Università di Palermo e — fino al 2024 — presidente della Sidi (Società italiana di diritto internazionale e dell’Unione europea), mette in luce le tensioni giuridiche e morali che attraversano il Piano ReArm Europe quando questo si traduce in massicci finanziamenti e flussi di armamenti. “L’incremento di spesa per la difesa non può legittimare una regressione negli obblighi internazionali sui diritti sociali – spiega De Sena -. La realizzazione dei diritti sociali è progressiva, ma non è consentito recedere dagli avanzamenti già compiuti”. In altri termini, spostare risorse pubbliche verso programmi militari può determinare inadempimenti verso obblighi internazionali in materia di sanità, istruzione e tutela sociale.

Sull’aspetto delle esportazioni, il professore richiama la legge italiana 185/1990 — il perimetro normativo che disciplina il controllo sulle esportazioni di armamenti. “La legge vieta l’esportazione verso governi ritenuti responsabili di gravi violazioni, ma la condizione richiesta dall’articolo — un accertamento formale da organi delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea o del Consiglio d’Europa — rende complessa l’applicabilità automatica del divieto”.

Si pensi – solo in ordine temporale – alla difficoltà di accesso a Gaza accusate da parte delle Nazioni Unite per il blocco imposto da Israele. Per De Sena, “l’iniziativa delle ong è preziosa, ma da sola non basta a determinate l’illiceità di una fornitura di materiali per la difesa: serve un accertamento istituzionale”. Non è sempre semplice – neppure da parte delle Commissioni di inchiesta parlamentari – accertare a chi l’Italia invii armi. “Questo per via dell’esistenza di clausole di riservatezza imposte nei contratti. Per legge, l’Italia non può inviare armi a Paesi impegnati in conflitti”. A Israele è stato in qualche modo concesso di bypassare questo vincolo. “La prosecuzione di forniture a Paesi come Israele dopo il 7 ottobre 2023 — chiarisce De Sena — è spiegabile in parte con il fatto che il governo avrebbe sospeso nuovi contratti ma non l’esecuzione di quelli già sottoscritti in date precedenti”.

Tradotto: niente nuove armi, ma quelle già saldate all’Italia hanno continuato a essere inviate a Israele. “Due casi limite, citati anche nell’ultimo rapporto di Amnesty International, sono le forniture di armamenti per Paesi che, secondo le Nazioni Unite, risulterebbero sotto osservazione o in violazione dei diritti umani come l’Egitto e il Qatar”. Proprio il Qatar è risultato il secondo miglior cliente italiano (dopo l’Indonesia, ndr) per importazione di materiali da difesa (principalmente aerei da trasporto e sistemi navali, ndr) nel 2024 con commesse superiori al miliardo di euro. In una fase in cui l’Europa ripensa capacità e deterrenti, De Sena ricorda che “la legittimità delle politiche di armamento si misura anche nella capacità dello Stato di conciliare sicurezza e tutela dei diritti fondamentali. La strada intrapresa rischia di condurre a una regressione sotto ogni prospettiva”. (H.C.)