Il nostro è un Paese singolare. Si invoca a gran voce il decentramento e l’autonomia, ma si fatica a contenere il forte centralismo che caratterizza il nostro sistema amministrativo. Sono passati anni dalla riforma costituzionale del 2001 che sembrava sovvertire l’antico modello, prossimo agli anni dell’Unità d’Italia, ma nulla riesce a scalfire antiche logiche e impostazioni che lasciano Comuni e Province dipendere, in modo sempre più pesante, da scelte politiche e burocratiche concepite nei polverosi palazzi romani.
Eppure, la nuova versione dell’articolo 118 della Costituzione afferma che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni”. E il 117, apparendo rivoluzionario, afferma che “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, delineando così un ordine di importanza che riconosce agli “enti territoriali” (i Comuni e le Province) un primato e collocando lo Stato in ultima posizione.
Ma la realtà e molto diversa. Certamente agli Enti locali non vengono negate le funzioni amministrative e le relative responsabilità, sempre più gravose, ma le risorse finanziarie acquisite, anche a livello territoriale, vengono indirizzate prevalentemente al centro che, seguendo logiche lontane da ogni prospettiva di efficienza amministrativa o di attenzione ai bisogni dei cittadini, ne trattiene una parte consistente per la gestione dei Ministeri, delle Autorità indipendenti, delle Agenzie, degli Uffici centrali, degli Organi costituzionali, ecc…
Insomma, una forma di decentramento di tipo “padronale” che si caratterizza per il fatto che i territori dell’intero Paese lavorano e raccolgono risorse per alimentare un “sistema centrale” che non ha alcuna funzione specifica, né responsabilità di risultato ed esercita una sorta di “indirizzo e coordinamento” che, oltre a comportare costi spropositati e ingiustificati, condiziona l’attività amministrativa e persino la paralizza, anche con la somministrazione di adempimenti e persino con l’applicazione di sanzioni.
Forse è il caso di ricordare che la nostra Costituzione non reca mai la parola “ministeri”, ma solo ministri. Mentre invece prevede espressamente gli altri enti territoriali. E ciò dovrebbe fare riflettere sulla legittimità di enormi apparati che ostentano una sorta di “burocrazia regolativa”, che si esprime con la produzione di circolari, pareri, orientamenti, direttive, ecc. che non dovrebbero avere alcun valore giuridico, ma che invece, pontificano, anche in contrasto con le leggi vigenti e spesso in contrasto tra di loro. È probabile, anzi ne siamo certi, che in tempi lontani, al fine di assicurare unitarietà nell’azione amministrativa, quegli uffici centrali avessero un ruolo utile. Ma è lecito domandarsi se adesso, dopo la riforma costituzionale, ma soprattutto, dopo la massiccia diffusione di sistemi di comunicazione telematica, sia ancora necessario che lo Stato mantenga costosi apparati con ingenti numeri di dipendenti, ospitati in nobili palazzi del centro della capitale, i cui canoni di locazione potrebbero essere dirottati per finalità più nobili. Anche perché, è il caso di evidenziarlo, buona parte dei dipendenti ministeriali, lavora (espressione talvolta azzardata) in smart working, mentre quelle ampie stanze dei palazzi del centro, continuano a essere presidiate, allestite, arredate, pulite, riscaldate e condizionate, ma non sempre abitate.
È proprio il caso di ripensare il nostro modello amministrativo, sia per renderlo più efficiente, sia per renderlo più rispondente alla Costituzione e più vicino ai cittadini… e meno costoso.

