A poche decine di metri dal centro città, dal Salotto della Palermo “Bene”, c’è un microcosmo pieno di ferite, miserie ed umanità, fermo nel tempo e nella Storia
La puntata del nuovo programma di Domenico Iannacone, ambientata al Borgo Vecchio di Palermo vale un trattato di antropologia culturale che il nostro Ateneo non ha mai svolto. Lì a poche decine di metri dal centro città, dal Salotto della Palermo “Bene”, c’è un microcosmo pieno di ferite, miserie ed umanità, fermo nel tempo e nella Storia. Lì non sono passati né Ciancimino né Orlando, lì siamo fermi al ’45. Quì la politica, quella del consenso non certo quella dei servizi, non entra. Ha paura di “abbruciarsi” come spesso accade. Un mondo di uomini e donne rimasti isolati dal percorso di una città dal lento fluire. Un mondo di piccoli adulti, privati giocoforza dell’adolescenza, in piena dispersione scolastica, la cui unica via di fuga non è l’emigrazione, ma la “fuitina”.
Mentre a pochi metri ci sono ragazze quasi cinquantenni della Palermo borghese, che per insipienza maschile, per stereotipi culturali, non riescono ad essere madri, qui a cinquant’anni si rischia di essere bisnonne. Qui tutti i ragazzi adorano le nonne, le vere madri, vista l’età adolescenziale delle maternità. La città a questi incroci è ferma al dopoguerra, case dirute, bassi umidi, un solo campetto di calcio, abbandonato all’incuria, ed un asilo murato. Non c’è tempo per i bambini al Borgo, devi crescere velocemente, fare i domicili cercando di evitare i domiciliari, ti devi “Vuscare u’pane”. C’è tanta umanità tra l’aggiustatore di biciclette ed il cantante con il calesse, Martino, fermo agli anni settanta, al “beit” italiano come storpia la moglie che stravede per lui. C’è voglia di riscatto nei ragazzi del Borgo, che non si accontentano del reddito di cittadinanza, nonostante gli agevoli le fuitine, dandogli i soldi per l’affitto di una casa. Il montaggio e la fotografia del docufilm sono struggenti. Iannacone realizza un grande servizio di TV pubblica, come nei documentari sul Mezzogiorno dei grandi giornalisti del passato, come Virgilio Sabel e Pino Locchi, anche se ci riporta alla Cinico TV di Ciprì e Maresco. Immagini tra fogne a cielo aperto, lupanari in eternit, case bombardate, topolini che sono topoloni e capre sui tetti. Siamo in Europa?
Si poteva investire in scuole professionali, in un centro sportivo dove fare uscire un nuovo Totò Schillaci, tra i bambini malati di pallone che giocano in strada. Forse al mondiale ci saremmo andati vista la pochezza del nostro attacco.
Si poteva investire in servizi sociali, per aiutare famiglie di grande affettività, ma di grandi distorsioni. Si poteva, ma non si è fatto. Era più semplice non attraversare il confine di via Carlo Alberto Dalla Chiesa, dove anche lo Stato è morto. Qui l’unico segno degno di nota, in cui si identifica nella sua missione educativa è dell’epoca borbonica, il carcere Ucciardone.
Come convivere con questa contraddizione nel centro di Palermo? Il cittadino borghese, che abita a pochi metri, riesce a conviverci perché si volta dall’altro lato, come la Chiesa palermitana che qui, a Santa Lucia, aveva una sua missione finita male. Qua il tempo si ferma e la storia fallisce. Come ci racconta il tentativo frustrato del rapper Picciotto, che lottava con rime e pallone per strappare i ragazzi dall’abbandono scolastico ed umano. Ma loro non scappano da quel microcosmo, unico forse in Occidente. Quello che se ne vuole andare e per paradosso l’unico che ha un ambizione, l’africano Marc, che è il solo che ancora studia e vuole fare la sua musica. Lontano da Palermo che non offre nulla. Palermo conserva nell’ignavia il suo suk africano, ma l’ivoriano vuole il mondo. Palermo è diventata più Africa della Costa d’Avorio.
Cosi è se vi pare.