Sono passati 40 anni da quel tragico 8 maggio 1982, quando a Zolder, in Belgio, Gilles Villeneuve compì l’ultimo volo della sua vita, al volante di una Ferrari. Lo chiamavano l’Aviatore, ma da quel volo non si rialzo’ mai più.
Villeneuve l’aviatore
“Se è vero che la vita di un essere umano è come un film, io ho avuto il privilegio di essere la comparsa, lo sceneggiatore, l’attore protagonista e il regista del mio modo di vivere”. Raramente una frase ha descritto quello che una persona aveva dentro così bene, ma Villeneuve ci riuscì alla perfezione. Dicendo quelle parole ad un giornalista, il canadese centrò magnificamente il punto della questione, che in quel caso era più banalmente se stesso. Villeneuve è stato in vita sua un privilegiato, perchè ha vissuto ed è morto non facendo ciò che più amava ma ancora meglio: facendo quello che voleva più fare nella maniera a lui più consona. Quante persone, quante vite, possono dire, alla fine, di essere andate in direzione ostinata e contraria, e nonostante questo appagare pienamente l’animo? Aggiungendo anche un tocco di naturalezza in una normalità che di lineare non aveva niente.
Quest’ultimo punto dell’esistenza di Villeneuve lo spiega, a modo suo ma meglio di qualsiasi altra interpretazione, Jacques, il figlio. In un’intervista di qualche tempo fa descrisse la sua, di vita, e quella familiare, in un modo che a qualcuno potrebbe sembrare quasi cinico, ma non lo era affatto. Jacques disse che non ha mai vissuto il padre come molti credono, che Gilles era tutto fuorché casa e famiglia, e che di fatto non lo vedeva mai, perchè quando non c’erano corse era sempre in giro con il suo elicottero, con le sue barche o con altre auto.
E che quando morì Gilles, di colpo si sentì sollevato, perchè non c’era più addosso a lui la pressione del padre, quella che lui descrive “di essere il figlio maschio”. Aggiungendo, anche, che questo gli servì, in futuro, quando doveva sopportarla, la pressione.
E quando vinse il titolo mondiale nel 1997 (per inciso: battendo in un durissimo corpo a corpo tale Michael Schumacher), Jacques non pensò a suo padre e non lo fece per suo padre, ma lo fece per se stesso. Non sono parole di una persona rancorosa verso qualcuno che non c’è più, di un figlio deluso, ma di un uomo che a sua volta, facendo la stessa professione del genitore ed essendo cresciuto a sua volta con quella sorta di eterno confronto, capì perfettamente perchè il padre fosse in quel modo. Jacques non cerco mai di imitare il genitore, anzi odiava parlare di lui nelle interviste perchè “io sono io, e quello di mio padre non è il mio stile di guida”.
Villeneuve e la totale dedizione alla velocità
Forse perchè alla base di Gilles Villeneuve c’era una dedizione totale e folle alla velocità. Era qualcosa che gli bruciava dentro e non poteva, letteralmente, farne a meno. E chi meglio di un pilota poteva capire un altro pilota, come poi fece Jacques? “Penso che il mio principale difetto sia quello di essere egoista. Quello che è mio, è soltanto mio. Se mi vogliono sono così, di certo non posso cambiare: perché io, di sentire dei cavalli che mi spingono la schiena, ne ho bisogno come dell’aria che respiro”, diceva non a caso “l’aviatore”. Soprannome che, al contrario di quello che molti credono, a lui non piaceva per niente. “Quando mi chiamavano l’Aviatore per me non era simpatico. La gente non si rendeva conto che ero un pilota inesperto e le mie uscite di strada facevano notizia perché correvo per la Ferrari”, ricordava Villeuve.
Ad affibbiarglielo, quel soprannome, fu la tremenda stampa italiana, che rimproverava a Gilles di finire troppe poche gare, di portare troppi pochi punti e di fare troppi incidento. Era il 1978, il canadese era arrivato l’anno prima per gli ultimi gran premi della stagione per sostituire non esattamente uno qualsiasi, ma Niki Lauda. In pista, niente più agli antipodi tra i due. Gilles aveva ragione sia quando diceva che era senza esperienza sia quando pensava che tutto quel trambusto in fondo era dovuto perchè lui correva per la Ferrari e non gli perdonavano niente.
In fondo, nel ’78 era poco più che un debuttante: iniziò la sua carriera di pilota partecipando a delle gare di motoslitte, organizzate nella provincia del Québec, passando poi alla guida delle monoposto, vincendo nell’anno 1976 sia il campionato statunitense che quello canadese di Formula Atlantic e nel 1977, solo un anno più tardi, esordì in Formula Uno per la McLaren, e dopo fu ingaggiato per le ultime due gare da Ferrari, che vedeva, evidentemente e a ragione, qualcosa che gli altri (giornalisti in primis) non riuscivano proprio a vedere.
Villeneuve l’aviatore
“L’Aviatore” Villeneuve lo diventò in California, a Long Beach, dove sembrava tutto apparecchiato per la prima vittoria di Gilles dopo un mare di polemiche. Era in testa, il pilota Ferrari, quando al trentottesimo giro si trovò davanti la Shadow di Clay Regazzoni, in ritardo e doppiato. A quel punto, il canadese tentò di superarlo in un punto dove due macchine non ci stavano. Finì con Villeneuve sul cordolo, con la sua Ferrari che si impennò, passando sopra la Shadow e schiantandosi contro una barriera di gomme.
Enzo Ferrari lo “ammonì”, ma paternamente, non lo rimproverò per davvero, cosa rarissima per il Drake, uno che non ci aveva pensato due volte a rompere con Lauda. Voleva bene a quel ragazzo, e capì prima di tutti che Villeneuve era uno che aveva un coraggio, un fegato, soprannaturale. Ed era anche velocissimo, eccezionale nell’andare ben oltre il mezzo a disposizione. A quei tempi, si poteva farlo.
Però Gilles, di volo, ne aveva fatto prima un altro, e tragico, nel GP del Giappone. Era la seconda gara con la Ferrari, nel 1977: il canadese cercava la grande rimonta ma, nel corso del sesto giro, entrò in contatto con la Tyrrell di Ronnie Peterson e volò fuori dalla pista. La monoposto di Villeneuve e finì in un’area che in teoria doveva essere sgombra: un commissario di percorso, che stava cercando di mandar via degli spettatori, e un fotografo persero la vita mentre una decina di persone riportarono ferite più o meno gravi.
Villeneuve e l’assenza di paura
Gli incidenti non lo spaventavano, anzi niente lo spaventava. Lo ha dichiarato tante volte, che nemmeno ci pensava alla paura, quando era dentro una monoposto. E questo alla fine era un problema. Aveva un fegato che gli permetteva di fare cose in pista che gli altri nemmeno avrebbero pensate, di farle, e che però lo portavano a non rendersi conto qualche volta di quello che non andava fatto.
Nestore Morosini, grande penna giornalistica che per tanti anni ha seguito la F1, raccontò che una volta, durante le prove libere del GP di Monaco 1981, i dottori del Centro medicina sportiva , che collaboravano con la Ferrari, sottoposero Gilles e il compagno di squadra Pironi a un test cardiologico. Attaccarono loro degli elettrodi il cui funzionamento veniva registrato per cinque giri. In tal modo, i medici avrebbero avuto i dati sulla frequenza cardiaca dei piloti nelle situazioni di corsa più difficili. Risultato: alla staccata e frenata dopo il velocissimo tunnel, Pironi aveva una frequenza cardiaca di 206 pulsazioni al minuto, contro le 157 di Gilles. Quasi imperturbabile.
Un uomo così focoso dentro una vettura riusciva dunque anche ad essere freddissimo, in maniera del tutto naturale. Di episodi eroici, in pista, di Villeneuve, ce ne sarebbero da raccontare veramente a bizzeffe. Il folle giro su tre ruote a Zandvoort 1979, con il mondo che guardava a bocca aperta quel diavolo che riusciva non solo a far ancora camminare quella vettura, ma anche a tenerla decentemente in pista. Dopotutto, il 1979 fu l’anno che tutti capirono quanto eccezionale fosse Gilles, e fu precisamente due mesi prima del Gp d’Olanda, quando a Digione sfidò Renè Arnoux e la sua Renault nel più stupefacente corpo a corpo della F1 moderna: descriverlo impossibile, si consiglia più pacatamente la visione su YouTube o affini. Il Canada tutto si era ammalato della “febbre di Villeneuve”, tanto adoravano Gilles, che li ripagò vincendo il primo gp disputato a Montrèal, nel 1978. Nel 1981 arrivò terzo, quando sotto il diluvio corse completamente alla cieca con un’ala rotta che gli tappava completamente la visuale e che non voleva saperne di staccarsi, con il pilota della Ferrari che faceva zig zag a folle velocità per farla volare via.
“Non me ne frega niente di vincere un mondiale arrivando terzo o quarto in gara”, diceva Villeneuve. La regolarità era semplicemente una cosa non da lui. Odiava avere dei limiti, non gli interessava. Era un puro, Gilles, come ama ricordare l’ingegner Mauro Forghieri, e anche per questo vinse molto molto poco rispetto al suo talento (sei gran premi).
Un puro “vero”, che si mise a disposizione dell’amico e compagno di squadra Jody Scheckter nel 1979, che vinse il titolo proprio davanti a lui, pur essendo nettamente più “lento” del canadese. A Monza lo scortò al traguardo, il sudafricano primo e lui secondo, quando poteva ancora giocarsi il campionato. Era convinto Gilles che la gratitudine fosse una merce pregiata, e che il suo momento sarebbe arrivato, prima o poi. E invece no.
Come spesso accade ai “puri”, in un senso o nell’altro, si sbagliava. Non diventò mai campione del mondo, non ricevette mai nessun trattamento di favore. Forse lo avrebbe ricevuto, ma non ebbe il tempo. Morì da “aviatore”, volando con la sua macchina, a Zolder, dove impattò con la sorte alle 13.52 dell’8 maggio 1982.
La “sorte” in questione era guidata da Jochen Mass, con la sua auto che praticamente fece da “trampolino” alla Ferrari del canadese: Gilles fu catapultato fuori dalla sua monoposto, schiantandosi con un paletto di recinzione e morendo sul colpo, nonostante il purtroppo inutile ricovero in ospedale.
Villeneuve e Pironi
A questo punto occorre però fare un passo indietro e fare la conoscenza del compagno di squadra, dell’uomo che rimarrà indissolubilmente legato al nome di Villeneuve. Quello con le frequenze cardiache alte. Parliamo di Didier Pironi.
I due erano amicissimi, vuoi per la lingua in comune, vuoi perché era difficile non voler bene a Gilles come compagno di squadra. Persino il burbero Carlos Reutemann, un uomo dal carattere sospettoso e incline al complottismo (parola di Luca Cordero di Montezemolo), che divise il box con Villeneuve nel 1978, si era alla fine affezionato a lui. Pironi faceva parte di una forse inimitabile nidiata di francesi di talento, quella che venne dopo lo sfortunatissimo Cevert e che comprendeva Jean-Pierre Jabouille, René Arnoux , Jacques Laffite, Patrick Tambay e, ovviamente, Alain Prost. Non era un campionissimo, Pironi, ma era un istrione, una persona estremamente intelligente e soprattutto molto, forse troppo, ambizioso.
Didier era il compagno di classe primo della classe, che nonostante non fosse il più preparato o il più intelligente di tutti riusciva, con la sua astuzia e con il suo cervello, ad arrivare alla pari o anche più in alto di tante persone che magari erano più attrezzate di lui. Insomma, il tipico personaggio che riusciva a sembrare meglio, agli occhi degli altri, di quello che in realtà fosse.
Capiamoci, di veloce era veloce, in pista. Difficilmente Enzo Ferrari sceglieva dei lenti, e certamente Pironi non lo era. Il francese, un parigino di bell’aspetto, di buona famiglia e per lo più di origine italiana, si era messo in luce nel 1980, quando riuscì ad ottenere ottimi risultati con la Ligier: vittoria in Belgio, pole a Monte Carlo, podi e giri veloci. In più, nel 1978 era riuscito anche a vincere la 24 Ore di Le Mans, mostrando anche una certa versatilità. Il “Drake” se ne innamorò e lo ingaggiò addirittura a marzo, col mondiale iniziato solo da qualche settimana. In Ferrari però nel 1981 le cose non girano, non girano per niente. Per Pironi è un anno disastroso.
La “Rossa”, che monta il turbo, è veramente una belva indomabile. Villeneuve, ormai pilota più esperto e maturo e “padrone” del box, riesce comunque ad ottenere due incredibili vittorie: una veramente memorabile, a Monaco, e l’altra in Spagna, mentre il compagno centra qualche piazzamento dimenticabile e molti ritiri. Gilles però aveva preso a cuore Pironi e lo difende con tutti: col team, con i giornalisti e con i tifosi. Spera che il francese farà con lui, al momento opportuno, quello che lui fece con Scheckter nel ’79. Didier glielo fa credere, o forse pensa davvero di aiutare Gilles quando potrà e di ricambiare tante gentilezza, questo non si saprà mai. Ma Pironi è un pilota, e l’istinto non ha un interruttore che si può spegnere o accendere a proprio piacimento.
Villeneuve, la Ferrari e il 1982
Il 1982, a detta di molti, sarà l’anno di Villeneuve. La nuova Ferrari riusciva ad abbinare la potenza dell’anno prima con un’aerodinamica più “leggera” e più maneggevole, e si capì subito che quella era una macchina vincente. I primi gran premi furono sfortunati, ma il potenziale della C2 si vedeva, non c’erano molte vetture migliori sulla griglia, anzi. Dal punto di vista personale, però, l’anno per Villeneuve era iniziato non bene: pare che la moglie, Joanna, volesse chiedere il divorzio, ma Gilles prese tempo e alla fine pare fosse riuscito a far cambiare idea alla compagna, complice una vacanza riconciliatrice ai Caraibi. Non solo: si vociferava di un interesse per Villeneuve della McLaren e della Williams per il 1983, o addirittura si parlava di una scuderia in proprio per il canadese, in un progetto che coinvolgeva anche l’ingegner Gerad Ducarouge e Arnoux. Insomma, non era un momento tranquillo per Gilles, però i progetti erano tanti e le ambizioni intatte. Anche perchè, come detto, la Ferrari C2 andava che era una meraviglia. La storia, e due esistenze, cambiarono per sempre il 25 aprile del 1982. Anzi, qualche giorno prima.
Villeneuve, Pironi e Imola
Per cercare di capire quello che accadde ad Imola, al netto di tutte le voci e le illazioni e le ipotesi che si sono fatte nel corso di questi 38 anni (molte cose vere, altre meno), bisogna contestualizzare un attimo quella che era stata la vigilia. Il Gp di San Marino era una gara nata in modo strano, nel bel mezzo delle polemiche tra la Fisa e la Foca, le due federazioni che governavano il mondo della F1: la prima guidata da Jean Marie Balestre, la seconda da Bernie Ecclestone.
Due personalità che definire forti e complicate è dire poco. I grandi team non inglesi, quelli col “turbo” e con le tecnologie più avanzate, stavano con Balestre, mentre le altre, quelle col V8 Cosworth aspirato, stavano con Ecclestone. Quest’ ultime, per cercare di competere, usavano ogni sorta di diavoleria tecnica, tra le tante quella di presentare monoposto sottopeso con dei serbatoi di stoccaggio dell’acqua, che venivano riempiti all’ultimo pit stop prima dell’arrivo e delle successive verifiche. Insomma, un trucco bello e buono. Per questo motivo, prima di Imola, il Tribunale della FIA accolse il ricorso presentato da Ferrari e Renault in merito al Gran Premio del Brasile, squalificando i primi due classificati, Nelson Piquet (su Brabham) e Keke Rosberg (su Williams). A questo punto, fu guerra aperta. Ecclestone e le scuderie inglesi decisero di boicottare Imola. Ad Imola per la corsa, dunque, rimasero Ferrari, Renault, Osella, Alfa Romeo, Toleman, Tyrrell e Arrows (queste ultime due per via degli sponsor italiani). Di fatto, di monoposto ai massimi livelli, rimanevano Ferrari e Renault. Da qui in poi, tra narrazioni vere o anche no, si entra nel campo del mistero.
Probabilmente Villeneuve doveva capire, fin dal principio, che Pironi non si sarebbe fatto da parte, per nessun motivo. Già dalla riunione che i team avevano organizzato per il Gp, dove uscì fuori una sorta di patto di “non belligeranza”, soprattutto nei primi giri, giusto per far divertire il pubblico. Pare che già in quell’occasione, subito dopo l’incontro, Pironi parlando coi connazionali della Renault disse di non essere tanto convinto di quel teatrino perchè in ballo c’era il titolo mondiale. Didier aveva, da uomo intelligente qual era, annusato che quell’anno, con quella monoposto, se la poteva giocare, eccome, visto anche che molti dei rivali nemmeno avrebbero partecipato a quella gara, e dunque niente punti per loro. E allora, perchè tergiversare i primi giri e fare favori?
Quel 25 aprile del 1982 la sfida, come ampiamente previsto, si limitatò fin da subito a Renault e Ferrari. Dopo pochi giri si ritirò Prost, dopo metà gara andò in fiamme il turbo di Arnoux.
Rimasero Pironi e Villleneuve, a giocarsi la vittoria, per la gioia di tutti, soprattutto dei tifosi Ferrari, accorsi in massa ad Imola. Dai box però capirono che qualcosa non andava. Gilles era la prima guida ed era convinto che chiaramente toccasse a lui la vittoria e che quei sorpassi e contro sorpassi col compagno di squadra servissero solo a fare spettacolo. Col passare del tempo, però, anche lui in pista ad un certo punto si rese conto che Pironi non stava giocando. La lotta fra i due si fece più intensa, così che al giro 49 il canadese, con un sorpasso alla Tosa, ritornò a condurre. Dai box Ferrari a questo punto ne ebbero abbastanza ed esposero un cartello, “slow”.
Andate più piano. Villeneuve primo e Pironi secondo. Sembrava chiusa lì. L’ordine però non era, evidentemente, sufficientemente chiaro. Almeno non per Pironi. Mauro Forghieri, che quella domenica era assente, probabilmente avrebbe anche lui esposto un cartello, ma con scritto “Gilles primo, Didier secondo”. Qualcosa di più chiaro, insomma. Fatto sta che quel “slow” esposto così, in maniera del tutto inconsapevole, diede via al fattaccio. Pironi se ne infischiò di quel “piano”, e continuò a tirare, fino ad un sorpasso incredibile all’ultimo giro nei confronti del compagno di squadra. Incredulo, come tutti. Alla fine Didier vinse la sua prima gara con la Ferrari, ma quel successo, oggi, è visto come una sorta di “iattura” che colpì lui, il team e Villeneuve. Una maledizione che trasformerà il 1982 da un possibile anno trionfale a quello forse più tragico nella storia di Maranello, e non solo.
Il 25 aprile del 1982 cambiarono due carriere, e forse anche due vite. Gilles si sentì tradito in tutti i modi possibili e immaginabili. Come uomo, come pilota, come amico. Lo stesso Enzo Ferrari lo difese, sì, ma con non troppa convinzione: in fondo aveva vinto una Ferrari. Pare che i rapporti tra i due si fossero già raffreddati in precedenza, fino alla rottura: voci, mai confermato, dissero anche che Villeneuve affrontò il gp del Belgio come separato in casa, addirittura come uno in procinto di essere licenziato, come annunciato dal “Drake” in un durissimo confronto tra i due i primi giorni di maggio.
Il podio di Imola fu qualcosa di surreale. Pironi sapeva di averla combinata grossa e festeggiò con sorrisi appena accennati. Villeneuve disse chiaramente a quelli della sua scuderia “ercatevi un altro pilota”, e fu portato quasi a forza alla premiazione. Gilles definì il comportamento di Pironi “da bandito”, accusandolo pesantemente a mezzo stampa.
«Credevo di avere un amico, un onesto compagno di squadra. Invece è un imbecille. L’unico vantaggio che ho avuto dalla lezione è che ora lo conosco bene. Potevo dargli due giri di distacco, ma avevo guidato con prudenza perché sapevo che alla Ferrari ci tenevano a portare tutte e due le macchine al traguardo. Con lui ho chiuso, non gli parlerò mai più», disse furioso alla stapa il numero 27 della Rossa.
Villeneuve e la morte a Zolder
Da parte sua Didier, e forse chissà anche Enzo Ferrari, erano convinti che alla fine sarebbe passata a Gilles, che avrebbe capito che si era trattata un incomprensione, o semplicemente che lo sport era fatta, e magari più in là, nel tempo, sarebbe andata diversamente, e che le cose si sarebbero aggiustata. Una sorta di “non farla troppo lunga”, ecco. Non ce ne fu il tempo, però.
Due settimane dopo ci fu Zolder e la morte di Villeneuve. Si disse che il canadese avesse spinto così tanto in qualifica perchè Pironi, in quel momento, era davanti a lui e questo lo faceva impazzire. Il francese, dal canto suo, si sentiva di aver fatto ciò che andava fatto: aveva chiesto più volte scusa all’ormai ex amico, ma Gilles non ne voleva proprio sapere.
Non ebbe insomma il tempo nè di farsi perdonare nè di essere perdonato, Pironi. Il francese passò sul luogo dell’incidente, e vide quello che un tempo era stato uno dei suoi migliori amici, quello che gli dava sempre un passaggio in elicottero a Maranello, per terra, circondato da medici, praticamente morto. Si ferma, da un’occhiata e se ne va. Capisce, capisce immediatamente che tutto questo lo riguarda, eccome.
Pironi e l’incidente
Sa perfettamente che adesso chiunque ricollegherà automatica quell’incidente, e conseguentemente la morte di Villeneuve, a lui. E sa che non glielo perdoneranno. Lo capisce dagli sguardi pieni d’odio che più d’uno gli lancia, non vergognandosene. Pironi, in quel momento, è anche lui una vittima. Razionalmente due settimane prima ha compiuto il suo dovere da pilota, seguendo più l’istinto della ragione, e comunque non si può tornare indietro, e lui questo lo sa. Ma tutto quello che è successo non può non riguardarlo in prima persona. E probabilmente è questo quello che pensa, quando va a trovare Villeneuve, tenuto in vita solo grazie alle macchine, nell’ospedale di Lovanio. Pensa questo, e chissà che altro. Gilles muore, il mondo lo piange, e lo piange anche Enzo Ferrari, uno che non si era mai affezionato troppo ai piloti perchè sa che il rischio è quello di doverli poi piangere, come stavolta: “Con la sua capacità distruttiva che macinava semiassi, cambi, frizioni, freni ci insegnava anche cosa fare perché un pilota potesse difendersi in un momento di necessità. È stato un campione di combattività, ha aggiunto notorietà a quella che la Ferrari già aveva, gli volevo bene”, lo ricordò il Drake.
Come una sorta di contrappasso dantesco, da quel momento in poi la vita di Pironi fu così drammatica, tragica e piena di dolore che a raccontarla sembra quasi un brutto romanzo. Diventa prima guida alla Ferrari, al posto di Villeneuve arriva Patrick Tambay, una seconda guida fatta su misura. Didier corre bene, la Ferrari è dominante, passa in testa al mondiale e sembra ben indirizzato nel vincerlo senza troppi problemi.
A Montreal, in Canada, dove la gente se mai fosse possibile lo guarda ancora più storto del solito, Pironi incappa in un altro, terrificante segno: è in pole position, ma alla partenza la macchina va in stallo e dall’ultima fila il giovane Riccardo Paletti lo colpisce in pieno. La scena, ancora oggi, fa orrore, con Pironi che esce dalla macchina, cerca di liberare l’italiano, immobile, poi si prodiga per spegnere l’incendio che circonda l’Osella, ma non c’è niente da fare: il trauma e l’inalazione delle sostanze estinguenti preclusero ogni possibilità di rianimare Paletti, che morì poco dopo in ospedale, con sua madre che era arrivata in Canada, di nascosto, per vederlo correre. Il mondiale continua a Pironi è sempre più dominante: vince in Olanda e arriva sul podio in Gran Bretagna e Francia, ha nove punti di vantaggio sul secondo in classifica quando arriva il Gp di Germania ad Hockenheim. Sabato diluvia ma Pironi, che si era già assicurato la pole position nella sessione di venerdì, decise di effettuare qualche giro di prova sull’asfalto bagnato, anche se non ne aveva alcun bisogno.
Mentre percorreva il lungo rettilineo prima del Motodrom alle spalle della Williams di Derek Daly, vide quest’ultimo scostarsi verso il bordo della pista. Ritenendo che il pilota irlandese volesse dargli strada, Pironi non si spostò dalla propria traiettoria ed anzi accelerò, trovandosi improvvisamente davanti la Renault di Alain Prost. La Ferrari di Pironi decolla e ricade di muso al suolo, distruggendo completamente l’avantreno: un volo anche questo beffardo, molto simile a quello di Villeneuve. Quello che si presenta davanti ai soccorritori è agghiacciante: Pironi ha le gambe spezzate, in maniera macabra, ma è cosciente e urla dal dolore. Piquet tenta di fare qualcosa, di consolare il collega, ma non ce la fa e vomita. Didier vive, letteralmente, tutta la sua agonia, fino al ricovero in ospedale, dove fu affidato successivamente alle cure dell’équipe medica guidata dal professor Letournel, luminare francese della chirurgia ortopedica, che riuscì anche ad evitare l’amputazione degli arti. La carriera in F1 di Pironi finisce in Germania. Beffa delle beffe, rimase in gara per il titolo mondiale del 1982 fino all’ultima corsa, classificandosi secondo a soli 5 punti dal campione Keke Rosberg, pur avendo saltato gli ultimi cinque gran premi. Insomma, Didier quel mondiale lo avrebbe vinto con estrema facilità. Destino volle diversamente.
Gilles e Didier per sempre
Seguirono mesi e mesi di terribile riabilitazione. Provò, nel 1986, a rientrare nel Circuis, con l’Ags prima e con la Ligier poi: era ancora veloce, ma non riusciva a reggere su una monoposto per più di 3-4 giri. Poi le gambe iniziavano a fare troppo, troppo male, permettendogli quindi di essere competitivo a quei livelli per non più di dieci minuti. Disperato e ancora assetato di velocità, decise quindi di buttarsi in un altro sport motoristico, la motonautica.
Riesce anche a vincere delle gare ma il 23 agosto del 1987, insieme agli altri due componenti del suo equipaggio (Bernard Giroux e Jean-Claude Guenard), durante la gara Needles Trophy Race al largo delle coste dell’isola di Wight, rimane vittima di uno spaventoso incidente. Per l’ultima volta. Il suo Colibrì 4, nel tentativo di guadagnare terreno sul leader della gara, si ribalta tra le onde di scia della petroliera Esso Avon, non lasciando scampo agli occupanti. Pironi trova la morte, e forse anche un pò di pace: aveva solo 35 anni.
Questa storia, però, non si chiude con una fine ma con un inizio. Anzi, due. Pochi mesi dopo l’ultimo addio a Pironi, la sua compagna, Catherine Goux, dà alla luce due gemelli. I loro nomi? Troppo semplice: Didier e Gilles.

