Con la sentenza n. 68 del 2025 la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004 recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita (Pma) nella parte in cui non prevede che venga riportato sull’atto di nascita del bambino nato in Italia grazie a una Pma effettuata all’estero, accanto al nome della madre biologica che lo ha partorito, anche quello della donna che insieme alla prima ha condiviso il progetto di genitorialità, la cosiddetta “madre di intenzione”.
La Corte ha ritenuto che il mancato riconoscimento dello stato di genitore anche alla donna che aveva dato il suo documentato consenso alla pratica procreativa avrebbe lasciato il minore privo di quelle tutele che la nostra Costituzione agli artt. 2 e 30 e i Trattati internazionali sottoscritti dall’Italia impongono di approntare in favore dei minori. Senza un formale riconoscimento la madre di intenzione non avrebbe potuto andare a prendere il “figlio” a scuola o soccorrerlo in situazioni di bisogno, in caso di impossibilità della madre naturale.
Già nel 2021 con la sentenza n. 32 la Corte, investita di una questione simile, aveva avvertito il legislatore della necessità di porre rimedio a tale situazione reputando inidonea a proteggere il minore la cosiddetta “adozione in casi particolari” da parte della madre d’adozione ai sensi dell’art. 44, 1° comma, lett. d) legge n. 184 del 1983 sulla adozione. Tale adozione richiede un procedimento lungo e costoso, e non è affatto sicuro che la madre intenzionale vi acconsenta.
Di fronte alla prolungata inerzia del legislatore e in presenza di comportamenti non uniformi dei Comuni, solo alcuni dei quali disposti a registrare entrambe le “madri”, la Corte costituzionale con una sentenza di tipo “additivo” è intervenuta per sanare la situazione di illegittimità protrattasi per troppo tempo.
Due sono i “concetti guida” sottesi alla sua decisione: il primo è quello della responsabilità che si assume anche la donna che dà il proprio consenso alla Pma cui si sottopone la partner e da cui sorge il diritto del nato a vedersi riconosciuto come figlio di entrambe. All’assunzione di responsabilità della nascita consegue il vincolo di genitorialità del figlio e la responsabilità genitoriale (art. 316 Codice civile) in capo alla coppia e il conseguente obbligo di mantenimento, di cura e di istruzione del nato sin dal momento del suo venire al mondo. L’altro concetto ispiratore è l’interesse del minore (il “best interest of the child”, come è definito nelle fonti internazionali) che in questo caso consiste nel diritto del figlio ad un legame giuridicamente riconosciuto con entrambi i soggetti che lo hanno desiderato e dai quali deve quindi poter pretendere cura e assistenza dalla nascita.
La Corte ha sottolineato che la decisione ha l’unico obiettivo di tutelare il minore e che la questione non attiene alle condizioni che legittimano l’accesso alla Pma in Italia: il divieto di una Pma “nazionale” per le coppie omosessuali, che aveva superato il vaglio della Corte nella sentenza n. 221 del 2019, infatti sussiste. Tuttavia non si può non osservare che le coppie in grado di permetterselo potranno procedere a una Pma nei Paesi dove non è vietata e far nascere in Italia un figlio che entrambe possono poi riconoscere.
Domanda per il legislatore: mantenere un divieto che di fatto vale solo per le coppie meno abbienti non contraddice il principio di eguaglianza?
Giovanni Cattarino
già Consigliere della Corte costituzionale e Capo Ufficio Stampa

