Il paradosso siciliano - QdS

Il paradosso siciliano

Il paradosso siciliano

Giovanni Pizzo  |
lunedì 26 Maggio 2025

I deputati siciliani dell’Assemblea regionale dibattono sulla introduzione della lingua siciliana come lingua ufficiale dell’Isola

Non vi parleremo di proverbi che testimoniano le profonde contraddizioni sicule, come il famoso “un cogghio e un fazzu cogghiere”, ma di una genialità che testimonia l’attuale livello della classe dirigente siciliana. Non riuscendo ad ottenere nulla delle ingenti risorse statutarie assegnate alla Sicilia e rese costituzionali, non facendo nulla per risolvere il più grave ed osceno delitto che è la capacità della burocrazia di perdere soldi, statali o europei, ci si rifugia in proposte di legge da terzo mondo, rispetto alla globalizzazione odierna. Tutto questo in un’isola in cui ad ogni angolo c’è un ristorante di cibo asiatico.

Si sta andando ad un confronto serrato ovunque sull’AI, che potrebbe cambiare il mondo per come lo abbiamo conosciuto, e i deputati siciliani dell’Assemblea regionale invece dibattono sulla introduzione della lingua siciliana come lingua ufficiale dell’Isola. In questo vengono tacciati di ignoranza dai linguisti delle università locali, e non nazionali, che ritengono l’isola piena di diversi ed autonomi dialetti e lessici, per cui una lingua omogenea non è codificabile. Costoro non si pongono il dubbio che alla corte di Federico II si aveva l’ambizione con Ciullo d’Alcamo di fondare la lingua italiana, cosa per altro riconosciuta, anche se marginalizzata ad arte, dallo stesso Dante nel suo “De Eloquienza”, ma tirano dritto per ritagliare un ruolo di marginalità retrograda per un’isola che poteva avere tutt’altro destino.

Che nella patria di Pirandello, Quasimodo, Vittorini, Sciascia, Bufalino, perfino Buttafuoco, attuale presidente della Biennale, si pensi di provincializzarsi con summa ignoranza lascia sconcertati. Abbiamo un tasso di analfabetismo, di andata e di ritorno, elevato, una scarsa considerazione dell’obbligo scolastico,  una dispersione scolastica da disperazione, soprattutto nelle periferie, e noi che facciamo? Invece di lottare per alzare l’asticella, l’abbassiamo per legge. Siccome non riusciamo a parlare, non dico l’inglese, l’italiano ci rinunciamo a tavolino, ognuno parli come mangia. Solo che a Palermo mangiano arancine e a Catania no, tanto per fare uno stupido ma significativo esempio.

Ogni cosa è chiamata in maniera differente nelle mille contrade in cui l’immensa isola, stratificata come un continente, è divisa da millenni, mai si ritrova lo stesso lessico, variano non solo le desinenze ma pure le radici, tipo “sivo” e “liscia”, visto che questa proposta fa solo ridere. Inventarsi una lingua siciliana, ed adottarla come lingua ufficiale, ha la stessa probabilità che l’ONU adotti l’esperanto come lingua della sua assise. E come se per far scomparire i rifiuti li chiamassimo “munnizza” ed il gioco è fatto. A questo punto rintroducano il tarì e risolviamo i problemi dell’isola. Un arancino mille tarì. Ma solo a Catania.

Così è se vi pare, disse un tale Luigi che il Nobel lo prese con la lingua italiana.

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