L’ art. 57 della legge n. 247 del 2012 in tema di ordinamento della professione forense, oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 70/2025, dispone che l’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare non possa essere cancellato dall’albo professionale, sia d’ufficio che su richiesta dell’interessato, per tutta la durata del procedimento. Da un lato la norma si propone, precludendo all’Ordine di cancellarlo in via di “autotutela”, di garantire all’indagato il diritto di difendersi dagli addebiti che gli sono stati mossi. Dall’altro, vietando la cancellazione volontaria, consente al procedimento disciplinare di fare il suo corso fino all’accertamento di eventuali responsabilità assicurando in tal modo la difesa del prestigio dell’Ordine e la credibilità di tutti i professionisti iscritti.
Tuttavia, come rilevato dalla Cassazione che ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, tali pur legittime finalità sono perseguite con un sacrificio eccessivo delle libertà del professionista soggetto al giudizio. Il giudice rimettente ha cioè ritenuto che la norma non fosse riuscita a comporre in modo ragionevole le diverse posizioni giuridiche coinvolte. L’avvocato costretto a rimanere nell’albo in pendenza del procedimento disciplinare non può intraprendere un’altra attività lavorativa che presupponga la cancellazione dall’albo professionale con violazione del suo diritto ad autodeterminarsi in ordine al suo lavoro e non può fruire delle prestazioni previdenziali o assistenziali quali la pensione di anzianità o quella di inabilità che richiedono la previa cancellazione dall’albo.
La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che il legislatore può limitare l’esercizio di libertà costituzionalmente garantite per perseguire interessi di altrettanta valenza costituzionale. In questi casi tuttavia la Corte, se interpellata, sottopone la norma limitatrice al cosiddetto “test di proporzionalità”. La norma oltre a essere idonea a raggiungere il fine dichiarato deve farlo comprimendo il meno possibile gli altri interessi chiamati in causa. Altrimenti ci troveremmo di fronte ad un diritto c.d. “tiranno” dinanzi al quale gli altri, seppure anch’essi di rango costituzionale, dovrebbero cedere il passo.
Nel nostro caso la norma che vieta la cancellazione mira a tutelare il diritto di difesa, l’affidabilità e il prestigio della categoria degli avvocati e a preservare la fiducia dei consociati nell’avvocatura, che potrebbe essere messa a rischio da soggetti la cui deontologia è stata posta in dubbio. Tuttavia lo fa a un prezzo troppo alto per l’avvocato soggetto al procedimento disciplinare: non ha pertanto trovato il giusto punto di equilibrio nel bilanciare i vari interessi concorrenti. L’avvocato astretto a rimanere nell’elenco professionale pur impedito a svolgere la sua attività è privato di diritti fondamentali quali scegliersi un diverso lavoro o ottenere le prestazioni sociali alle quali può pretendere.
La norma non supera l’esame di ragionevolezza ai sensi dell’art. 3 della Costituzione e viene pertanto dichiarata incostituzionale.
Il legislatore dovrà colmare il vuoto che si è venuto a creare attingendo a quanto previsto per i casi analoghi in altri ordinamenti, quale quello del pubblico impiego, che offrono soluzioni rispettose dei diversi interessi. Nel frattempo la Corte invita gli organi professionali a sospendere l’azione disciplinare nei confronti dell’avvocato che scelga la cancellazione, salvo riprenderla ove non prescritta, qualora il professionista chieda la reiscrizione all’albo.
Giovanni Cattarino
già Consigliere della Corte costituzionale e Capo Ufficio Stampa

