“Trent’anni fa si faceva e non si sapeva niente, ora invece sappiamo tutte cose”. La rivoluzione tecnologica degli ultimi anni è destinata a lasciare il segno in tutti i gangli del vivere sociale senza eccezione alcuna, compresa la criminalità organizzata.
A commentare le difficoltà delle cosche palermitane nel riorganizzare una struttura verticistica di Cosa nostra alla maniera tradizionale, quella che un tempo era chiamata Cupola, sono due tra le 181 persone che ieri sono state arrestate nel maxi-blitz scattato a Palermo. “Non c’è più du cuosu ri trent’anni fa, se l’hannu fattu tre volte e tre volte al nascere della cosa hanno arrestato a tutti”, ragionavano.
Nel fiume di carte – quattro ordinanze di custodia cautelare e tre decreti di fermo – in cui sono ricostruite le accuse, spicca la parte riguardante gli accorgimenti che boss e affiliati prendevano per cercare di schermarsi dalle attenzioni della Direzione distrettuale antimafia.
La partita tra mafiosi e investigatori è stata giocata anche sul fronte della riservatezza delle comunicazioni. Un settore in cui ad avere un ruolo centrale sono stati i criptofonini.
La rete di Cosa nostra
Hardware capaci di garantire avanzati sistemi di cifratura, schede sim estere e una piattaforma di messaggistica – conosciuta con il nome No.1BC – gestita da una società maltese. Sono gli ingredienti della ricetta che i mandamenti di Cosa nostra palermitana avevano ideato per cercare di continuare a fare affari lontano da occhi e orecchie indiscreti.
Che i criptofonini siano ormai uno strumento usato dai criminali è un dato che gli investigatori di più Paesi hanno acquisito da tempo. Ieri, però, per la prima volta tale tecnologia è emersa in maniera decisa all’interno di un’inchiesta giudiziaria riguardante la mafia siciliana. “È stata individuata una rete di comunicazione che si avvale di utenze riconducibili alla compagnia telefonica spagnola Movistar associate ad altrettanti Iphone – si legge in uno dei decreti fermo – Tali utenze si connettevano alla rete internet, quantomeno in una prima fase, attraverso l’Apn (Access Point Name) m2mde.telefonica.com, riconducibile in modo inequivocabile alla tecnologia nota con il nome di No.1BC. Si tratta – continuano i magistrati – di una piattaforma di messaggistica criptata a pagamento gestita dall’omonima società, che consente lo scambio di messaggi di testo, note vocali e immagini garantendo un elevatissimo standard di sicurezza e rendendo le relative comunicazioni di fatto non intercettabili. Quanto al suo utilizzo pratico, la caratteristica principale che la contraddistingue dalle comuni applicazioni di messaggistica istantanea è la natura temporanea del relativo abbonamento, che ha una durata media di sei mesi, termine oltre il quale può essere rinnovato oppure, più frequentemente, sostituito da un nuovo dispositivo con relativa sim card”.
La caccia al reggente
I criptofonini consentivano non solo di seguire e chiudere importanti affari legati al narcotraffico, ma anche di mettere in comunicazione esponenti di primo livello dei singoli mandamenti palermitani. “La speditezza delle interlocuzioni, al riparo dai pericoli derivanti dalla realizzazione di incontri, ha di fatto temporaneamente ovviato all’assenza della commissione provinciale di Cosa nostra”, hanno sottolineato i magistrati. In un altro passaggio del decreto di fermo si legge: “L’utilizzo della rete criptata ha comportato un preoccupante innalzamento delle capacità operative del sodalizio mafioso, che ha saputo sfruttare tutte le potenzialità di questo nuovo strumento per instaurare un canale comunicativo protetto interno tra vertici del mandamento ed esterno con gli esponenti di altri clan non isolani”.
Tra le storie che si sviluppano attorno all’uso dei criptofonini c’è quella di Giuseppe Auteri, 49enne che da latitante sarebbe riuscito a tenere le redini del mandamento di Porta Nuova grazie proprio alle comunicazioni riservate.
L’arresto di Auteri è avvenuto il 4 marzo scorso, in una palazzina di via Recupero, a Palermo. L’uomo, che al momento dell’irruzione si è disfatto di due criptofonini, una pistola e di una serie di appunti manoscritti contenenti informazioni sugli affari economici delle famiglie mafiose, per diverso tempo avrebbe vissuto all’interno di un appartamento che all’apparenza sembrava disabitato, sfruttando i favori di un vivandiere.
Ad Auteri gli investigatori sono arrivati dopo avere analizzato le comunicazioni – da un punto di vista del volume dei dati trasmessi e dei momenti in cui i contatti avvenivano – con Roberta Presti. Quest’ultima, moglie di un esponente dello stesso mandamento di Porta Nuova, è stata arrestata per varie accuse, tra cui quella di avere aiutato a mantenere il filo diretto con il reggente.
Quando hanno iniziato a sospettare che Presti potesse utilizzare un criptofonino per veicolare messaggi ad Auteri, gli investigatori hanno deciso di provare a restringere il cerchio attorno all’uomo.
“Si decideva di richiedere un’ingente mole di tabulati telefonici e telematici sulle celle di Palermo finalizzati all’individuazione della tecnologia criptata e degli identificativi dei singoli apparati telefonici in uso agli indagati”, si legge.
Dopo avere capito quale criptofonino potesse usare Presti, gli investigatori sono andati alla ricerca di un altro apparecchio simile che avesse uno traffico di dati compatibile. “Posto che l’Apn deve necessariamente essere identico per tutti i dispositivi criptati facenti parte di una medesima rete di comunicazione – viene spiegato parlando del telefono della donna – era evidente che anche quello in uso agli altri favoreggiatori, nonché al latitante stesso, fosse da ricercare partendo da tale comune dato tecnico”.
Da questo ragionamento, gli investigatori sono riusciti a scremare – tramite filtri legati alle date, agli orari e alle dimensioni dei contenuti scambiati – quella che è stata definita “una sconfinata mole di dati”, finendo per individuare l’area geografica del telefono usato da Auteri in una zona compresa tra le vie Oreto, Carlo Gemellaro, Silvio Boccone e Bernardino d’Ucria.
I consumi elettrici
A quel punto l’indagine si è avvalsa di tecniche più tradizionali, ma sempre efficaci. “Venivano svolti accertamenti a tappeto sugli immobili ricadenti nell’area individuata, finalizzati a far emergere un eventuale nominativo di interesse o, comunque, un qualsivoglia segnale che potesse offrire un autonomo riscontro alla presenza del latitante in quella zona. E in effetti – si legge – l’analisi dei consumi Enel e il successivo raffronto con le informazioni anagrafiche e lo stato di fatto dei luoghi consentiva di addivenire all’individuazione di un appartamento, sito al secondo piano della palazzina di via Recupero 6, che, sebbene presentasse perennemente le serrande abbassate, faceva registrare consumi di energia elettrica compatibili con la presenza costante di almeno una persona”. Quella persona, una volta abbattuta la porta d’ingresso, si è rivelata essere proprio il boss Giuseppe Auteri.

