CATANIA – Un dato incontrovertibile consente di valutare l’emozione che “La Chunga” di Mario Vargas Llosa ha trasmesso agli spettatori nella serata del debutto: l’assoluto silenzio mantenuto per un’ora e quaranta minuti. Niente mormorii, colpi di tosse, schiarimenti di voce, suonerie di cellulari subito stoppate, né lucine dagli schermi. E nemmeno applausi, se non al calar del sipario: sinceri, grati, appassionati.
La sala Verga dello Stabile di Catania, fin da quando si chiamava Teatro Delle Muse, in occasione delle prime raccoglieva un pubblico formato in parte da persone che andavano a vedere lo spettacolo più per dovere che per piacere. E la malcelata insofferenza emergeva nei comportamenti prima citati, che culminavano, a volte, in un ronzante russare.
Beh, il regista Carlo Sciaccaluga, mettendo insieme uno straordinario cast d’attori, scene e costumi efficacissimi e soprattutto una stupefacente drammaturgia della luce, è riuscito a zittire tutti, conquistandoli con la vicenda descritta nel 1986 nel romanzo “La casa verde” (la traduzione è di Ernesto Franco) dal futuro Nobel Vargas Llosa. Il quale, come si legge nelle note di regia, “Ci regge lo specchio mentre guardiamo in noi stessi l’abiezione, la paura, la meschinità, la violenza”.
Demoni, questi, che si rincorrono nella bettola gestita della Chunga, ostessa dall’inseparabile pipa, nella città di Piura, mille chilometri a nord di Lima, capitale del Perù.
Perché è la marginalità, oltre ovviamente al rapporto donna-uomo, il tema portante del dramma narrato: in quella città al limite della foresta amazzonica sfruttamento e violenza sono la regola, tanto da farla diventare emblema di quell’Ingiustizia eretta a sistema dal capitalismo sfrenato.
È in quel limbo che gli inconquistabili sono condannati a vivere da perdigiorno senza dignità. E dell’iniquità territoriale è vittima anche chi è pronto a sopraffare gli altri, agitando un coltello. Come Josefino il gran magnaccia, che, perduta ai dadi una forte somma di denaro, la recupera vendendo la propria splendida amante, Meche, alla proprietaria dell’osteria. Sì, lei: la Chunga. Frocia decisa a evitare che l’ingenua ragazza distrugga la propria vita nella Casa verde, postribolo della Mangacheria, per mantenere l’uomo di cui è invaghita.
“Non t’innamorare – la ammonisce -, questo distrae. E la donna che si distrae, si frega. Che si innamorino di te loro. Ricorda: in fondo, tutti sono come Josefino”. E a Meche che obietta come con quel discorso ricordasse proprio lui, risponde: “Sarà che Josefino e io siamo uguali”.
È Debora Bernardi a offrire, con passione e misura, la propria grande anima d’attrice per far comprendere il sacrificio di Chunga e il senso della storia narrata da Llosa descrivendo quel campo di concentramento per gli ultimi che era Piura. Città simile a Chiclayo, altro centro costiero del nord del Perù, a soli 200 chilometri, dove nel 1985, un anno prima che uscisse il romanzo, sarebbe giunto, per servire i poveri, un missionario di nome Robert Francis Prevost.
Ma tanti sono, in tutto il mondo, i territori condannati a scegliere tra economia deteriore, ossia illegale, e l’emigrazione: tra il 2015 e il 2021, oltre 700 mila siciliani si sono iscritti all’anagrafe di altre regioni. E troppe volte ai nostri giovani è stato detto “Parti, lascia questa terra senza speranza e vai nelle grandi città del Nord, dove ci sono ricchezza, prosperità e diritti”.
Le stesse parole dice Chunga a Mecha: “Vai, vattene da Piura. Non voglio vederti imputridire nella Casa Verde, passando da un ubriaco all’altro. Vattene a Lima, dammi retta”. Affascinante la regia di Sciaccaluga, che ha saputo trarre da tutti il meglio, come dimostrano le scene di Anna Varaldo e i costumi di Anna Verde. Un vero prodigio la recitazione degli attori, che hanno superato sé stessi rompendo ogni convenzione: Francesco Foti nei panni di Josefino, Francesca Osso (Meche), Pietro Casano (Josè). E poi Giovanni Arezzo, che per interpretare Scimmia rimane curvo per quasi due ore. E infine Valerio Santi, straziante nel ruolo di Lituma.
A tingere di magia lo spettacolo, ecco poi le luci di Gaetano La Mela: ha persino scovato chissà dove delle vecchie lampade al sodio, di quelle usate, prima dello strapotere dei led, per illuminare le strade. Dall’alto fa scendere quei raggi giallastri, che hanno il potere di rimandarci indietro nel tempo. Dall’alto, come in un quadro di Caravaggio. Che ci induce alla quiete, a un silenzio che, in un mondo che urla, diventa disponibilità all’ascolto, alla riflessione, alla comprensione. Alla pace. Ecco perché chi ha visto spettacolo ha… disarmato le parole. E fatto silenzio.

