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La Corte Costituzionale si sostituisce al legislatore

La Corte Costituzionale si sostituisce al legislatore
Consulta Corte Costituzionale

La Corte costituzionale elimina il tetto dei 6 mesi sugli indennizzi per licenziamenti illegittimi previsti dal Jobs Act.

Nella questione di legittimità costituzionale decisa con la sentenza n. 118 del 2025 la Corte costituzionale si è trovata di nuovamente confrontata con l’art. 9, 1° comma, del Dlgs. n. 23 del 2015, il cosiddetto “Jobs Act”. Il Tribunale di Livorno aveva denunciato la norma per contrasto con l’art. 3 della Costituzione sull’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, con gli articoli della Carta che tutelano il lavoratore (artt. 4, 35 e 41) nonché, per il tramite dell’art. 117, 1° comma, con l’art. 24 della Carta sociale europea (Cse) sulla tutela dei lavoratori in relazione al licenziamento.

La norma prevede che nel caso di un datore di lavoro che impieghi fino a 15 lavoratori per unità produttiva, l’indennizzo per i licenziamenti intimati senza giusto motivo o senza causa, ovvero inficiati per vizi procedurali, sia dimezzato e non possa comunque superare il tetto massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione. Il giudice rimettente ritiene che, fermo restando il potere del legislatore di sostituire la tutela cosiddetto “reale” del lavoratore, cioè il reintegro nel posto di lavoro dal quale è stato illegittimamente estromesso con una tutela monetario-risarcitoria, quest’ultima deve essere comunque idonea a riparare il pregiudizio sofferto nel caso concreto. Il che difficilmente accade vista l’esiguità dell’intervallo, da tre a sei mensilità, entro il quale deve essere mantenuto il risarcimento. La somma così determinata non consente infatti di graduare l’indennizzo in relazione ai differenti gradi di gravità dei diversi tipi di licenziamento illegittimo, con due conseguenze. Da un lato il mancato ristoro del danno effettivamente sofferto dal lavoratore illecitamente privato del lavoro e dall’altro il venir meno dell’effetto dissuasivo nei confronti dei licenziamenti più gravi, trattati in modo sostanzialmente non diverso rispetto a quelli che lo sono meno. La standardizzazione dell’indennizzo integra la violazione, oltre che degli articoli che la Costituzione dedica alla tutela della dignità dei lavoratori, anche del principio di uguaglianza. Quest’ultimo vuole che situazioni uguali siano trattate allo stesso modo ma, simmetricamente, vieta trattamenti simili per situazioni diverse.

Nella sentenza n. 183 del 2022 la stessa questione era stata sottoposta alla Corte costituzionale che l’aveva dichiarata inammissibile. Il giudice rimettente aveva chiesto alla Corte di ripristinare la legalità costituzionale distinguendo tra i vari tipi di licenziamento illecito e graduando gli indennizzi in base alla forza economica di ciascuna impresa. Forza che non poteva essere desunta soltanto dal numero di occupati, criterio ormai obsoleto in epoca digitale, ma doveva essere ricavata anche altri elementi quali il fatturato e gli utili in bilancio. La Corte aveva ritenuto di non poter intervenire trattandosi di materia riservata al legislatore. Soltanto esso con una visione di insieme avrebbe potuto contemperare l’esigenza di certezza dell’imprenditore sul quantum da risarcire in caso di licenziamento illegittimo e il diritto del lavoratore ad un congruo ristoro per il licenziamento illecito.

Questa volta peraltro la Corte ha ritenuto di dover decidere. Il legislatore, benché sollecitato nel 2022 con la sentenza n. 183 a rimediare alla situazione di incostituzionalità già allora accertata era rimasto inerte. Inoltre in questo caso il giudice rimettente chiedeva soltanto l’eliminazione dell’inciso della norma che prevedeva il dimezzamento degli indennizzi e il loro mantenimento al di sotto del tetto delle 6 mensilità: nella sua sentenza la Corte non tocca il dimezzamento, ma elimina il tetto delle 6 mensilità, che andranno così da 3 a un massimo di 18, invitando tuttavia il legislatore ad intervenire in una logica complessiva di sistema. L’invito sarà raccolto questa volta?