Caporetto è tra i territori a Ovest dell’Isonzo che gli austriaci avevano, per ragioni tattiche, sgomberato volontariamente. Il nome di Caporetto era Kobarid e non si parlava italiano ma sloveno. Eravamo noi gli invasori, in gran parte per incomprensibili motivazioni, come scrive Luigi Zoja in “Narrare l’Italia” (Bollati Boringhieri, 2024): “La dodicesima (battaglia) è nota come Battaglia di Caporetto. Con la Rivoluzione in Russia e la sua uscita dal conflitto, la Germania aveva potuto mandare qualche rinforzo agli austro-ungarici e la disparità di forze si era ridotta: 41 divisioni contro 33 austro-tedesche.
“Caporetto”, in italiano, diventò un concetto a sé, equivalente a disastro. Si sfasciò non solo il fronte ma la disciplina dell’esercito. Questo non rivelò tanto una vigliaccheria del fante italiano, quanto una sua ridotta identificazione coi comandi e un desiderio di ribellarsi; che esistevano anche in altri eserciti ma non in queste proporzioni. La separazione tra ufficiali e soldati era particolarmente forte, quella con gli alti comandi fortissima. Man mano che proveniva più dal sud, la truppa capiva meno i comandi; sia letteralmente per la loro lingua, sia per la mentalità. Diversi aspetti della gerarchia militare continuavano a far pensare a un Sud colonizzato. Cadorna e Badoglio, due persone che segneranno l’Italia nella prima metà del Novecento, erano piemontesi, cioè ancora piuttosto “stranieri” alla maggior parte della truppa. Storici anglosassoni arrivano a definire i comandi “sadici” o “perversi”, anziché autorevoli, o a segnalare che la “cultura piemontese” permeava la monarchia, l’esercito, i ministeri. Gli ufficiali di altre regioni, salvo qualche eccezione, avevano molte più difficoltà nell’essere promossi. Alla fine della guerra si trovavano agli atti 1050 fucilazioni di soldati, ma il numero reale era superiore: molte non erano state registrate. Per fare un paragone, nell’esercito tedesco (secondo i luoghi comuni, il più severo) ne risultano solo 50, anche se la truppa era il doppio di quella italiana e la guerra durò un anno di più”.
È quando ci si interroga sugli obiettivi e conseguenze di questa Grande Guerra che le cose si complicano. Per sua fortuna il bellissimo libro di Aluisini-Dal Molin non deve entrare in queste complicate domande, non deve formulare giudizi o auspici o previsioni, ma semplicemente e scrupolosamente racconta storie di uomini e di persone specifiche e vere. Ma sono proprio queste storie personali, che ci interrogano, ci ripropongono continuamente queste domande difficili.
Emilio Lussu, da giovanissimo sottotenente, era fervente interventista perché, come tanti, pensava che la guerra avesse un senso etico, fosse formativa, fosse un esame. Ma sul Carso capì rapidamente che la guerra era solo crudeltà e “inutile strage” e diventò nemico della guerra, pur continuando a fare, con sprezzo del pericolo e con dignità e onore, il comandante responsabile.
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