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La storia di Pietro D’Ardes, da detenuto ad avvocato

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La storia di Pietro D’Ardes, da detenuto ad avvocato

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domenica 14 Marzo 2021

Pietro D’Ardes racconta la sua personale esperienza con la giustizia e il suo percorso di reinserimento nella società: «come il carcere può essere uno strumento di riabilitazione».

“Solo umanizzando questi luoghi di solitudine e di sofferenza, si può aiutare chi è privato momentaneamente della libertà personale, verso un vero recupero della persona. Gli istituti di pena, che per molti vengono intesi solo come luoghi di emarginazione e per custodire la sicurezza della società, possono divenire una vera e propria provocazione, uno stimolo, una sfida a far nascere e ad interrogarci affinché il nostro mondo sia più misericordioso e più attento alle persone” questo ha affermato don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, dopo il colloquio con l’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma le nostre carceri possono davvero essere uno strumento di riabilitazione? Con un intervento netto del legislatore potrebbe succedere, così almeno suggerisce Pietro D’Ardes. Condannato a 11 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione aggravata, nell’ambito dell’operazione “Cent’anni di storia” in cui è emerso come i clan legati ai Casamonica di Roma siano riusciti a penetrare nell’area portuale di Gioia Tauro avvalendosi della collaborazione delle ‘ndrine calabresi appartenenti alle famiglie Alvaro e Piromalli. D’Ardes ha aperto adesso un suo studio legale e lavora per diventare avvocato.

Di cosa si occupava prima dell’arresto?
«Ho iniziato a muovere i primi passi come ispettore del lavoro per il Ministero, poi mi sono licenziato perché ho deciso di fondare e seguire la mia cooperativa “Lavoro”. Nel frattempo sono diventato consigliere nazionale dell’Unci che a quel tempo era una delle centrali cooperative più importati e poi sono diventato il segretario regionale del Lazio.

Piano piano sono cresciuto e sono diventato una realtà importante, ho cominciato a lavorare con la grande distribuzione dall’Umbria alla Sicilia. Avevo 1.500 dipendenti tutti regolarmente inquadrati, ma poi mi sono imbattuto in questo incidente di percorso, in questa disavventura che mi ha portato a perdere tutto e a stare lontano dalla vita normale per quasi dieci anni».

Come è cambiata la sua vita in carcere .
«Arrivato in carcere ho deciso di dare senso a questa esperienza e ho iniziato a fare lo scrivano aiutando gli altri detenuti con le istanze, quindi ho cominciato a studiare il diritto. Quando ero in carcere a Rossano Calabro ho partecipato ad un progetto con il cappellano e il vescovo Monsignor Santo Marcianò per la creazione di una Casa Famiglia per detenuti, è stata una cosa molto bella e importante. Poi ho lasciato la Calabria perché ho chiesto trasferimento a Roma per avvicinarmi alla famiglia. Arrivato a Rebibbia mi sono messo a studiare, mi sono iscritto alla magistrale di Torvergata in Giurisprudenza. Venivano i professori in carcere per gli esami e nello stesso tempo continuavo ad aiutare i detenuti. Mi sono laureato con una tesi sull’esecuzione penale e l’ordinamento penitenziario, riportando anche la mia esperienza, perché ho creato un permesso a dimensione del detenuto approvato dal Tribunale di Sorveglianza. Immergendomi in questa materia del diritto penitenziario ho visto tante falle che andrebbero risolte diversamente perché la nostra Costituzione all’art.27 comma 3 dice che la pena non deve essere finalizzata a trattamenti umani degradanti ma bensì al reinserimento nella coesistenza sociale, che può essere intrapreso soltanto con un percorso intramurario che prosegua anche fuori».

Secondo lei realmente in Italia, allo stato attuale, il carcere può essere uno strumento di riabilitazione?
«Se in carcere venissero dati i giusti strumenti alle diverse aree educative potrebbe esserlo. Spesso all’interno delle carceri il personale è sottodimensionato, se per 200 detenuti ci sono 4 educatori è chiaro che non tutti possono essere seguiti adeguatamente.

Per questo motivo è importante la creazione di un percorso serio, in cui la persona abbia la possibilità di prendere una certa direzione nella propria vita, che deve iniziare dentro il carcere e proseguire fuori con delle strutture che possono accogliere le persone condannate a scontare altre misure di sicurezza, perché la pena non finisce con il carcere, la reclusione è quella principale ma poi ci sono le interdizioni e le varie misure di sicurezza. Infine, bisogna anche combattere con la “teoria dell’etichettamento” da parte della società, per cui diventa difficile ricollocarsi a livello lavorativo.

Per questo motivo molte persone sono a rischio di reiterazione del reato, cioè prese dallo sconforto, dalla paura e sopraffatte dalla difficoltà di reinserirsi in società, possono commettere nuovamente dei reati, entrano di nuovo in carcere perpetrando un circolo vizioso».

Dopo la laurea che ha fatto quindi?
«Mi sono laureato e adesso sono quasi criminologo. Se Dio vuole nel 2022 farò l’esame e diventerò avvocato».

Quindi adesso è un praticante avvocato?
«Non sono proprio un praticante perché per iscrivermi all’albo dei praticanti devo avere la riabilitazione, che può essere ottenuta dopo tre anni dall’aver scontato la condanna.

Nel 2022 chiederò la riabilitazione e a quel punto potrò fare l’esame di Stato. In questo modo posso dare alla collettività un contributo in base alla mia esperienza per quanto riguarda il penale, infatti, sull’esecuzione e sulla sorveglianza rispetto ad un avvocato normale ho maggiori conoscenze. Per forza di cose conosco meglio quello che è il percorso intramurario, infatti, spesso vengo chiamato da molti studi legali per fare le istanze ai detenuti. Ho una mail che utilizzo solamente per i detenuti, in cui mi scrivono, io a volte faccio loro le istanze, gliele notifico in carcere e poi loro le presentano tramite l’ufficio matricole. Adesso sono consulente del mio studio legale che ho aperto con dei soldi che mi ha lasciato mia madre e mi appoggio agli avvocati.

Il mio obiettivo futuro è quello di seguire prettamente l’esecuzione, la sorveglianza e alcuni aspetti in ambito civile. Non tornerò più a fare l’imprenditore perché non ne ho nessuna intenzione e andrò avanti con lo studio, con la cultura e con la mia nuova vita».

Com’è cambiata la sua vita da prima ad ora?
«Prima ero una persona che inseguiva solamente i soldi e quindi vivevo la mia vita nell’opulenza. Oggi quando mi alzo la mattina mi faccio il segno della croce e ringrazio Dio per quello che ho, nonostante non abbia più nulla di quello che avevo prima. Il carcere mi ha cambiato, mi ha insegnato a fare la spesa e a spendere poco, a campare anche con 300 euro invece che con i milioni di euro al mese. Ho capito che molte cose nella vita non servono, l’importante è vivere. Se devi comprare un jeans va bene anche quello da 15 euro non serve spenderne per forza 150. Ho imparato a cucinare, sono una persona molto dinamica, gioviale, e sono una persona che quando si alza la mattina, anche se ci sono tanti problemi, ho sempre il sorriso sulle labbra, perché la vita si deve prendere così».

Lei continua a proclamarsi innocente?
«Sì, il mio è un errore giudiziario anche se non spetta a me dirlo perché le sentenze non si possono contestare».

Non si era reso conto del fatto che stava facendo affari con i Casamonica?
«Io facevo l’imprenditore come ho sempre fatto e mi sono comportato sempre correttamente con le persone. Se una persona ha un’impresa da mandare avanti non guarda molto queste cose, sono stato un po’ superficiale, perché mi rendo conto adesso con l’esperienza del carcere che anche un imprenditore deve stare attento a certe cose, perché comunque potrebbe essere coinvolto nelle vicende anche se non c’entra nulla.

Io di fatto facevo seria imprenditoria e davo lavoro alla gente, levandola dalla strada, forse anche questo ha dato fastidio. La Calabria e la Sicilia sono bellissime regioni ma l’imprenditoria non è bene accetta. Quando la Cassazione mi ha condannato in via definitiva, io ho chiesto la ricusazione del giudice, perché un giudice non può giudicarmi due volte, ma la ricusazione è stata rigettata.

Chissà forse un giorno quando diventerò avvocato chiederò la riapertura del processo, ma in ogni caso non voglio fare polemiche perché quando si finisce in carcere qualche errore è sempre stato fatto, anche quando un reato non è stato commesso nella maniera in cui è contestato, ma ci sono degli errori e delle imprudenze».

Come sta elaborando e utilizzando la sua vicenda carceraria a favore dei detenuti?
«La mia vicenda processuale e carceraria è conclusa, appena potrò mi adopererò per ottenere le riabilitazioni. Poi continuo ad aiutare i carcerati, parlo loro di legalità e norme, infatti, in teoria ci sarebbe una carta che dovrebbe essere consegnata ad ogni detenuto quando ha accesso in carcere che riguarda i suoi diritti e i doveri.La mancata consegna della “carta del detenuto” determina il fatto che spesso i carcerati non sappiano cosa non devono fare e quali sono i propri diritti.

Bisogna, inoltre, partecipare alle attività che si svolgono in carcere: la scuola, la musica, il teatro, la pittura, sono tutti laboratori utili per la progettualità del soggetto. Il problema è che questi servizi variano da istituto a istituto, invece questi processi andrebbero standardizzati, perché ci sono strutture in cui il detenuto sta sempre in cella, quindi come fa a iniziare questo percorso di cambiamento? In carcere è necessario essere forti, rimboccarsi le maniche, rimettersi in gioco e cercare di diventare una persona migliore per se stessi e per la società.

Altrettanto importante è il reinserimento della persona in società, infatti, se una persona ha pagato il suo debito con la società non si capisce perché debba essere osteggiato o guardato in cagnesco.

Quando ha finito la pena ha diritto di reinserirsi nella società, se poi sbaglia di nuovo pagherà nuovamente ma ci sono persone che non ne vogliono sapere più nulla e queste persone devono essere aiutate anche a livello psicologico, perché dentro il carcere vengono a mancare tante cose, si vengono a creare delle lesioni per cui una persona quando esce dal carcere si può trovare ad aver perso il lavoro, i soldi e anche gli affetti.

Il permesso premio serve proprio a mantenere in piedi l’unione quindi l’aspetto genitoriale, quello con il coniuge. Sono aspetti importanti che vanno a ledere la psiche di un soggetto».

È contento del percorso che sta facendo?
«Sì, anche perché ho molte soddisfazioni a livello lavorativo, quello che mi manca è non poter stare con la toga magari a patrocinare ma per quanto riguarda l’aspetto extragiudiziale e sullo studio sono molto contento».

Adesso di cosa si sta occupando?
«Io adesso sto lavorando per alcune strutture del terzo settore per creare delle case famiglia per detenuti, sia che debbano finire di scontare la pena – parliamo di condannati non per gravi reati di allarme sociale – ma anche per persone che abbiano terminato la pena e hanno bisogno di un’accoglienza.

Al contempo saranno erogati dei corsi di formazione e di specializzazione come pizzaiolo, cuoco, cucito e tutte quelle attività che possono essere motivo di occupazione per queste persone. Se un soggetto impara a fare il calzolaio, ad esempio, ha la possibilità di scegliere, può aprire una bottega e fare il calzolaio, poi se continua a fare il rapinatore o lo spacciatore è una scelta sua, però questa società, che ha l’interesse di recuperare un individuo, deve dargli la possibilità di farlo. Questo è il vero reinserimento».

Sonia Sabatino

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