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La tesi di Caporetto come una vittoria

La tesi di Caporetto come una vittoria
Battaglia di Caporetto (generato con AI)

Giuseppe Prezzolini rilegge la Prima guerra mondiale: Caporetto come “vittoria morale” e Vittorio Veneto come sconfitta

Segue dal QdS dell’17/12/2025

Quando l’Italia entrò in guerra, Prezzolini si arruolò come volontario e il 27 agosto 1815 partì per il fronte. Pochi mesi di guerra furono sufficienti per fargli cambiare totalmente la sua visione della guerra. Subito dopo la fine del conflitto, il capitano del Regio Esercito Giuseppe Prezzolini scriveva due reportages per “La Voce”; dopo Caporetto (novembre 1917) e Vittorio Veneto (marzo 1920). Di essi Prezzolini scriveva: “Se volessi esprimermi paradossalmente, direi che Caporetto è stata una vittoria, e Vittorio veneto una sconfitta per l’Italia. Senza paradossi si può dire che Caporetto ci ha fatto bene e Vittorio Veneto del male; che Caporetto ci ha innalzati e Vittorio Veneto ci ha abbassati, perché ci si fa grandi resistendo ad una sventura ed espiando le proprie colpe, e si diventa invece piccoli gonfiandosi con le menzogne e facendo risorgere i cattivi istinti per il fatto di vincere”.

Caporetto come vittoria. La tesi è solo apparentemente paradossale. Nella disfatta di Caporetto il popolo italiano, forse per la prima volta, si dimostrò unito (e il libro di Aluisini–Dal Molin ce lo conferma) e seppe unito – guidato da un napoletano, con la più onorata Brigata formata da soldati sardi, con la canzone del Piave, diventata una sorta di inno nazionale, scritta e musicata anch’essa da un napoletano a Bergamo – resistere sul Piave e sul Grappa preparandosi all’inseguimento di Vittorio Veneto dei resti dell’esercito austriaco già in disfacimento. Ma subito dopo Caporetto venne Vittorio Veneto e contestualmente le menzogne e gli inganni di sempre, come Prezzolini scriveva già nel 1920: “Caporetto fu, sotto questo aspetto, una rivelazione straordinaria. Non si dirà mai abbastanza il bene che Caporetto ha fatto all’Italia. Sembrò restituire al paese il buon senso, la misura, l’umiltà, la volontà seria, la concordia, il senso della precisione, la coscienza severa dei propri atti, che tanto avevano scarseggiato nei primi retorici anni di guerra. L’esercito di verità cui ci costrinse ebbe ottimi effetti. Ci si può rammaricare che noi dobbiamo imparare sempre a così caro prezzo; ci si deve augurare che nel futuro non sia necessario sempre passare col dito sulla fiamma per sapere che brucia. Ma non resta che prendere atto di questa caratteristica della storia nostra recente: che i periodi più sani della nostra vita sono stati quelli in cui, avendo duramente battuto contro la realtà, ci siamo raddrizzati ed abbiamo imposto a noi stessi di cambiare strada. Lo storico dell’Italia futura dirà molto bene di Adua e di Caporetto; cioè, dirà molto bene degli italiani, perché, in fondo, non è una qualità da disprezzare quella di sapersi correggere. Caporetto, dunque, ci curò; quello che è accaduto dopo Vittorio Veneto dimostra però che non ci guarì… Ma perché ci deve esser sempre bisogno di un Caporetto per imparare a conoscere la realtà?”

È questa una domanda che dobbiamo porci anche oggi nel frastuono che ci avvolge e che confonde ogni cosa. Libri come quello di Aluisini e Dal Molin, con il ricordo di persone vere, anticonformiste, piene di umiltà e di pietas, come Emilio Lussu e i suoi colleghi e soldati sardi ci aiutano a riflettere su questa difficile domanda.