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L’impatto sul Pil, irregolarità, record di maschi impiegati: cosa rivelano gli ultimi dati Istat sul lavoro domestico in Sicilia

L’impatto sul Pil, irregolarità, record di maschi impiegati: cosa rivelano gli ultimi dati Istat sul lavoro domestico in Sicilia
Immagine di repertorio, di Jack Finnigan su Unsplash

Questa occupazione ha un impatto dello 0.8% sul Pil dell’Isola, oltre 40mila famiglia coinvolte. A Palermo il maggior numero di uomini impiegati nel settore.

Molti gli uomini che lavorano nell’ambito del lavoro domestico in Sicilia, un settore che ha prodotto, nel 2024, in termini di prodotto interno lordo, ben 731 milioni di euro. I dati sono quelli dell’Istat, elaborati dalla fondazione Leone Moressa e Domina, l’Associazione nazionale famiglie datori di lavoro domestico, e mostrano come l’Isola si trovi all’ottavo posto, tra le venti regioni, per valore assoluto del Pil domestico nazionale, che si concretizza nel 4,6% del totale, proporzionale al peso demografico siciliano. Sul PIL regionale, invece, il settore, incide per lo 0,8%, stesso valore di regioni più industrializzate come Lombardia ed Emilia-Romagna. In totale, le famiglie datori di lavoro in Sicilia sono 40.611, su un totale nazionale di 917.929. I lavoratori assunti in tutta la penisola, invece, sono 834mila.

Lavoro domestico in Sicilia, sempre più uomini: il quadro per provincia

Se il settore è caratterizzato da una forte presenza femminile, pari all’88,6%, in Sicilia si registra la maggiore presenza di uomini, in particolare a Palermo, dove i lavoratori di sesso maschile sono il 28%; a Messina, al 27%; e a Catania, al 22%. Se si guarda allo storico, dopo il boom di regolarizzazioni del periodo pandemico del 2020, e una riduzione piuttosto importante nel periodo subito successivo, il lavoro domestico sembra aver trovato in Italia un nuova stabilità, mentre in Sicilia, tra il primo semestre del 2022 e il primo semestre del 2023 continuava a segnare una riduzione dei contributi versati del 7,9%. L’irregolarità rimane comunque un problema generalizzato.

Secondo le stime di Domina, oggi il lavoro domestico coinvolge oltre 3,3 milioni di persone in tutta Italia, tra lavoratori e famiglie datori di lavoro. I censiti ufficialmente dall’Inps, però, sono soltanto 1,7 milioni, con un tasso di irregolarità che nel settore raggiunge il 47,1%. Tra i regolari, pari a 834mila, oltre alla amplissima presenza delle donne, si registra anche una larga maggioranza di stranieri, pari al 69%. Il gruppo più rappresentato resta quello proveniente dall’Est Europa, al 35,7%, ma cresce il numero di lavoratori da Georgia, Perù ed El Salvador, mentre si riduce quello da Romania, Moldavia e Bangladesh. Interessante, comunque, l’aumento della componente italiana, oggi al 31,1% del totale.

La spesa delle famiglie

Dal lato delle famiglie datori di lavoro, si registra una contrazione: sono 917.929, circa 60mila in meno rispetto al 2023, con una riduzione percentuale del 6,1%. Le regioni con il maggior numero di datori restano Lombardia e Lazio, mentre il profilo medio è ancora a prevalenza femminile, al 58%, e con bassa incidenza straniera, appena il 5%. Il peso economico del settore è tutt’altro che trascurabile. Le famiglie italiane spendono complessivamente 13 miliardi di euro all’anno per i lavoratori domestici: 7,6 miliardi per quelli regolari e 5,4 per quelli irregolari. Una spesa che, se da un lato rappresenta un onere per i bilanci familiari, dall’altro genera un risparmio stimato di 6 miliardi per lo Stato, che altrimenti dovrebbe farsi carico dell’assistenza in strutture per migliaia di anziani.

Lavoro domestico, un “indotto importante”

I miliardi investiti, inoltre, producono effetti moltiplicatori sull’economia. “Non solo grazie alle famiglie datoriali si riesce a sostenere il lavoro di cura”, ha dichiarato Lorenzo Gasparrini, segretario generale di Domina, “ma i 13 miliardi spesi determinano uno stimolo alla produzione quantificabile in quasi 22 miliardi”. In termini di Pil, il lavoro domestico genera da solo 15,8 miliardi di valore aggiunto, circa l’1% del totale, ma se si considera l’intera “care economy”, che include anche il settore sociosanitario e i servizi di cura, si sale a 84,4 miliardi, pari al 4,4% del Pil nazionale. Una cifra che supera nettamente settori come agricoltura, ferma al 2,1%, e la ristorazione, al 4,2%.

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